Nessuna immagine centra l’essenza di Pietro Aretino meglio del Ritratto di Tiziano a Palazzo Pitti. Adolfo Venturi lo ha definito come uno dei «massimi esempi dell’arte di sorprendere un carattere», che qui è «lo sfarzo del letterato potente». Il soggetto irrompe ai nostri sguardi in carne, sangue e anima. Se anche ne ignorassimo i contorni storici essenziali, facilmente raccoglieremmo l’impressione di un uomo che gode della sua sfrontatezza, «figura di lupo che cerca la preda» (Francesco de Sanctis). L’effigie confezionata dal Vecellio occupa perciò giustamente il fulcro della mostra dedicata al «flagello de’ principi», Pietro Aretino e l’arte nel Rinascimento agli Uffizi, fino all’1 marzo.
La ricognizione messa a punto dai curatori – Anna Bisceglia, Matteo Ceriana e Paolo Procaccioli – coglie il profilo dello scrittore nella molteplicità degli interessi, secondo una sequenza che abbina le sue composizioni ad ampie aperture sulla produzione artistica contemporanea.
Sappiamo poco degli inizi dell’Aretino, in patria e poi a Perugia. Più che rievocarli con un respiro spensierato, lui stesso non svela molto. La dicitura «pictore», accanto al suo nome nell’Opera omnia del 1512, apporta però un significativo dato di conoscenza: sprovvisto di natali prestigiosi (era figlio di un calzolaio), Pietro trova un primo tassello di riscatto sociale nella pittura. Interessante la presenza in mostra della Pala di san Gerolamo di Giovan Battista Caporali (Galleria Nazionale dell’Umbria), compagno fraterno di quel tempo, che per una quasi perfetta coincidenza di versi con la commedia Lo ipocrito ha fatto fantasticare in passato su una sua parte nel dipinto.
Roma tiene a battesimo l’atto iniziale dell’Aretino scrittore. All’ombra di Agostino Chigi e poi del cardinale Giulio de’ Medici, Pietro respira l’aria di un’età culturalmente privilegiata. Sin da subito, però, è portavoce di un’attitudine nuova e fatica nelle regole del gioco cortigiano. La spavalderia urticante di Pasquino, cui aderisce senza remore, è la via della sua emancipazione: la letteratura può essere qualcosa di più che una consuetudine di servitù da circolo erudito, ma un’occasione di libertà.
Pietro Aretino attraversa i generi, alterna i registri e fornisce ai lettori un miscuglio di ogni sapore. Prendiamo il Lamento de un cortigiano, quadro amaro della condizione servile, e la più accondiscendente Laude di Clemente VII; oppure i Ragionamenti (dove esercita al massimo grado lo spirito piccante con i costumi in libertà di una donna che si converte da suora a prostituta) e la Passione di Gesù, tra le sue riscritture religiose. Questo atteggiamento multiplo è un po’ la firma dello scrittore. A catalogare le tendenze opposte della sua poetica ci si accorge che classicismo e antipedanteria, accondiscendenza e ribellione sono solo le estremità non confliggenti di una personalità eccezionale, consapevole di alternare «volumi divoti» a testi «allegri». Tra questi occupano il posto principale i Sonetti lussuriosi, fotogrammi di una messinscena d’amore ispirati a figurazioni erotiche di Giulio Romano incise da Marcantonio Raimondi. L’esposizione offre l’unica versione nota dell’opera (editio princeps del 1537), reliquia profana sopravvissuta alla furia distruttrice dell’iconoclastia cattolica. Le illustrazioni da Gli amori degli dei di Rosso Fiorentino e Perin del Vaga, insieme alla Grottesca con scena erotica di Giovanni da Udine (Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi) rendono conto dello stesso clima.
Se anche non fu lo scandalo dei Sonetti a causare la fine del soggiorno romano dell’Aretino, certamente aumentò la tensione conflittuale con la Curia. Rigettato dal sistema delle corti (dopo Roma, anche Federico II Gonzaga lo licenzia con imbarazzo da Mantova), in cui aveva dato prove incontrovertibili di non appartenere alla specie del gentiluomo plasmato nell’ubbidienza e nella rispettosa compostezza, Pietro arriva a Venezia nel 1527.
Dalla rovina cortigiana germoglia il suo trionfo editoriale. Nelle Lettere, il suo lavoro più importante, mette in gioco il fronte della sua stessa vita e si accredita per lo status di uomo di pubbliche relazioni. È diventato il «segretario del mondo», a parte delle confidenze di tutti, e per questo esercita soggezione. I suoi interlocutori dipendono da quel giudizio e imparano a temerlo. «I prìncipi tributati dai popoli, il servo loro tributano» fa annotare lungo il bordo della medaglia di Alessandro Vittoria, che lo ritrae come un re a riscuotere l’omaggio dei sottoposti.
Nei volumi delle Lettere Pietro Aretino immette anche diverse questioni artistiche, in quanto amico di pittori e scultori (da Raffaello a Jacopo Sansovino). Attraversa in prima linea le loro carriere, s’impegna come intermediario e trae grande vantaggio da quella che è stata chiamata la «diplomazia del dono». Ne sono testimonianze probanti, a titolo campionario, le esperienze di Francesco Salviati, che introduce a Venezia come «giovane glorioso», Rosso Fiorentino, da lui indirizzato verso la protezione di Francesco I di Francia, e Giorgio Vasari, che a Pietro deve la parentesi lagunare degli anni quaranta.
Un altro punto da tenere presente è che per l’Aretino la pittura è un’esperienza trascrivibile e la maniera di Tiziano, deliberatamente spontanea e gagliarda, addirittura modello di stile. L’esercizio retorico preferito in tanti suoi scritti è riprodurre gli effetti dell’immagine attraverso i mezzi della parola, riscrivere le sensazioni suscitate nello sguardo dall’osservazione di un’opera d’arte. L’allestimento, fondato sull’interazione tra suggestioni verbali e visive, favorisce un discorso veramente esauriente su questo aspetto. La risonanza è palpabile al cospetto della Maddalena tizianesca degli Uffizi che prolunga il senso della descrizione aretiniana ne L’umanità di Cristo. Quando si sofferma sulla «bellezza dei suoi capegli» lucidi d’oro che le fluttuano intorno a coprire la nudità, l’Aretino estrae in modo diretto il sapore di contrizione struggente e insieme seduttività del quadro omologo.
L’ombra lunga dei discorsi aretiniani (specie quelli a tema artistico, che trovano nella storiografia vasariana una notevole eco) si estende ben oltre la sua umana esistenza. La messa all’Indice fa dei suoi scritti fuoco da ardere, ma non ne spezza mai del tutto la voce. Il discorso espositivo si chiude con Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi, trasmesso in estratto. Aretino vi è voce narrante, finalmente testimone autorevole del suo tempo, dopo secoli di pregiudizi e bugie. Il riscatto di un intellettuale, condannato ma mai dimenticato, passa anche da qui