La storia, il suono, della musica soul è una storia di voci, delle loro infinite mutazioni intese a raccontare l’infinito, ideale dizionario delle emozioni umane. Solo alcune voci, però, hanno gettato le basi da cui un intero stile ha spiccato il volo. Citando a caso: il delicato falsetto di Sam Cooke, le contorsioni vocali di James Brown, le urla pericolose di Wilson Pickett, le armonie dei Temptations ecc. E poi Arettha, unica, irripetibile; un’artista la cui voce poteva acuire o lenire un dolore, capace di sprigionare la stessa intensità sia che si rivolgesse a un’entità soprannaturale o a un amante infedele.

Tutto questo le derivava dall’ambiente gospel in cui era cresciuta, dal rapporto diretto con Mahalia Jackson o Clara Ward – che spesso frequentavano la casa di Aretha e del papà, il reverendo C. L. Franklin; e anche dall’adorazione nei confronti di nomi più secolari come Dinah Washington – suo vero idolo – che Aretha, minorenne, era andata ad ascoltare di nascosto al Flame Show Bar di Detroit. Il blues di Dinah l’aveva travolta. Anni dopo racconterà alla giornalista e scrittrice Usa Gerri Hirshey: «Una cosa è innegabile, il soul viene dal gospel e dal blues, questo è sicuro che lo puoi scrivere». Anche altre vocalist venivano dai cori di chiesa e avevano sconfinato altrove (pop, jazz, rock, rhythm’n’blues): Della Reese, Nina Simone, appunto Dinah Washington, Gladys Knight, Mavis Staples, Etta James ecc.; rispetto a tutte, però, la voce di Aretha conteneva un livello di estasi, rapimento, infervoramento che nessuna è mai riuscita a eguagliare. Quel tipo di emozione che spinge l’ascoltatore a ridere istericamente, o magari a piangere, o a decidere di passare con il rosso tanto chi se ne frega!

La voce di Aretha – che lontano dai microfoni era sorprendentemente lieve, sommessa, quasi un bisbiglio – in uno studio di registrazione o su un palco diventava una presenza fisica fin troppo grande anche per un corpo ampio come il suo. Emblematico il modo in cui un pezzo sottile come I Say a Little Prayer con lei assumeva un’impensabile convinzione e forza interiore; le stesse caratteristiche che avrebbero trasformato – con piccoli aggiustamenti di testo – Respect in un inno femminista o l’esibizione feroce di Think nella parte più elettrizzante del film The Blues Brothers .

La grande capacità di Aretha fu quella di trasferire – al pari di Ray Charles, primo, grande predicatore del blues – il fuoco del gospel nelle sue interpretazioni blues e pop, in quei pezzi che abitano le zone altissime delle classifiche. Come Charles si accompagnava al pianoforte (le prime lezioni gliele diede James Cleveland, cantante gospel, amico di famiglia) seguendo la tecnica – altamente ritmica e coinvolgente – dello stride piano per poi tuffarsi nei pezzi con un’urgenza e una frenesia che non avevano eguali.

Sam Cooke – il cantante gospel preferito di Aretha, colui che passando al pop l’avrebbe ispirata a fare il salto – non toccherà mai le vette di Charles (anche per via di un repertoio molto leggero e spesso di maniera), disvelerà però che per fare soul non c’è bisogno di una tecnica formale ma della capacità di far affiorare le qualità emotive, quasi inconsce della voce umana. E in questo Aretha era imbattibile, genio del melisma, quell’arte vocale con cui si carica su una sola sillaba un gruppo di note ad altezze diverse. In pratica con Aretha (ma anche con Sam Cooke, Jackie Wilson o Smokey Robinson) una parola come «good» poteva trasformarsi in un’intera canzone.

Apprezzatissima da Miles Davis e da tanti altri artisti con cui ha collaborato, Miss Ree (come la chiamavano i suoi musicisti), o Doctor Ree, i più formali, o Soul Sister Number One (da James Brown a scendere e salire), «è Stata Noi, la Nostra Regina – come ha scritto Vernon Reid, leader dei Living Colour su Twitter -. Siamo stati fortunati ad aver vissuto nella sua stessa epoca. PENSIAMO di apprezzare Aretha, ma non credo ci riusciamo. La profondità. I cambiamenti. Il trionfo. Il dolore» (vale la pena riportare anche l’originale: «We were lucky to have her in our lives at all. We THINK we appreciate Aretha. But I don’t think we do. The depth. The changes. The triumph. The heartache. She WAS US. Our Queen». Riavvolgendo il nastro della vita e tornando a quando Aretha aveva nove anni, si può solo immaginare, e forse nemmeno quello, cosa potevano ascoltare le orecchie di chi ce l’aveva davanti, nel coro della chiesa della padre. Una cosa però è certa, quello che disse Dinah Washington a Quincy Jones indicando Aretha: «Quella lì, la ragazza di C. L., quella è l’unica da tenere d’occhio». Sante parole.