«Cos’è per me il soul? È la capacità di far sentire a chi ti ascolta quello che hai dentro. È difficile sorridere quando ti stai lacerando: qualcuno riesce a farlo, io non ci riesco. Quando canto non riesco mai a fingere, sono me stessa in quel momento al cento per cento». Aretha si confessava così in un’intervista al Newsweek, nel 1967, sull’onda della sua prima vera affermazione nelle classifiche con l’album I Never Loved a Man the Way I Love You, che segnava il suo ingresso nella scuderia Atlantic e inaugurava cinque anni ricchi di dischi dall’altissima qualità compositiva e dall’ottimo riscontro nelle hit parade, successo «popolare» che il lungo sodalizio con la Columbia non le aveva garantito. Ora la voce della figlia del reverendo C.L. Franklin – una delle figure predominanti nell’America dei Cinquanta e Sessanta, considerato da Jesse Jackson «il modello assoluto del predicatore nero» – ha il totale controllo dei suoi mezzi vocali: è risoluta in quei glissati e in quelle onde emotive dove si specchiano donne e uomini, e al contempo è tonante e avvolgente.

La voce uscita dalle chiese intonando inni al signore riesce a mantenere intatta quell’intensità emotiva anche nell’ambito di tre o quattro minuti di una canzone. «Il soul – sottolineava spesso – in realtà non dovrebbe essere spiegato, in questo stile ci sono così tante cose e persone: è un sentimento, è quasi uno stile di vita. I pittori e gli artisti sono soul, anche uno chef se vogliamo. E non serve essere nero per avere un’… anima».

Uno stile naturale ed espressivo quello della giovane Aretha forgiato dai gospel che insieme alle sorelle Carolyn e Emma canta nella chiesa battista del padre, perfezionato nei tour – appena quattordicenne – con il genitore insieme ai Ward Singers. Aretha cresce nella casa di un ministro della chiesa ma ha anche orecchio per ascoltare l’infinito repertorio r’n’b di quegli anni: dai primi classici di Ray Charles alle dolcezze infinite di Sam Cooke in You Send Me passando per due performance vocali di Johnny Ace che lasciano un segno nella sua formazione: Never Let Me Go e My Song. Questi brani – ne fornirà folgoranti versioni negli anni Atlantic – sono fondamentali per la sua maturazione vocale. Quando appena diciottenne sbarca a New York, nelle sue prime incisioni come Today I Sing the Blues era già di una maturità espressiva e una tecnica rare, in cui sapeva mescolare le radici gospel e blues trasportandole in brani destinati a un pubblico mainstream.

Ma gli arrangiamenti dei pezzi durante gli anni nella Columbia – caratterizzati da un eccessivo utilizzo di archi tipico dell’epoca – spesso non le rendono giustizia. Esemplare è un disco di pur squisita fattura come Unforgettable, inciso nel 1964 e incentrato sul repertorio di Dinah Washington scomparsa appena un anno prima, dove in qualche passaggio Aretha sembra quasi intimorita. Così se riesce a rendere totalmente sua una ballad come Drinking again, trasfigurandola in un finale gospel accompagnata dall’organo di Ernie Hayes, più indecisa nell’interpretazione risulta in Mister Lee, come intimidita dal raffronto con la sgargiante versione originale. Produzioni eleganti dove pesa la mancanza di una hit: mentre How Sweet It Is di Marvin Gaye o My Girl dei Temptation, diventano presto successi, Aretha con Can’t You Just See Me si ferma al 95° posto della classifica di Billboard, l’ennesimo tentativo fallito di posizionare l’aspirante star ventitreenne, e già con tre figli a carico, nel mercato pop.

La piena maturazione arriva solo nel quinquennio Atlantic (1967-’72), dove a un esemplare coesione di linguaggio si unisce il rispetto verso lo stile e le sue radici. E qui si compie il miracolo anche commerciale, trasformando ogni sua incisione in un evento destinato a navigare alto nelle hit. Aretha entra negli studi di Muscle Shoals trovandosi subito in sintonia con i musicisti – tutti bianchi – che le ha messo a disposizione il produttore Jerry Wexler. Pochi accordi prima dell’incisione, e quando si siede al piano è subito magia: «Era lei a creare gli arrangiamenti in studio – racconterà tempo dopo Arif Mardin -, le armonie create al piano servivano per definire le parti di chitarra e basso, mentre le pause davano il ritmo alla batteria». I Never Loved a Man the Way I Loved You coniuga una fedeltà di stile e al contempo una capacità di rinnovare i linguaggi della black music e un impatto commerciale che lo porteranno a scalare le classifiche fino ad arrivare al secondo posto nelle hit di Billboard, e generare successi come la canzone che dà il titolo al disco e la cover di Respect di Otis Redding, che Aretha rivisita in una chiave letteralmente esplosiva.

Trovata l’alchimia anche in studio, Aretha è ora la voce assoluta che domina dall’alto colleghe blasonate e si impone nei concerti dal vivo – alcuni dei quali trasportati su vinile diventeranno pietre miliari della sua discografia come Aretha in Paris (1968) e Live at the Fillmore West (1972), dove trova spazio uno storico duetto con Ray Charles sulle note di Spirit in the Dark. Nella sua voce tutti i colori espressivi, dal gospel la potenza e dal blues i corrosivi contrasti, dal jazz le sofisticate vulnerabilità che sfoggia nelle ballate, modalità interpretativa a cui si ispireranno buona parte delle cantanti delle generazioni successive, prime fra tutti Anita Baker e Whitney Houston.

Chiusa la parentesi con la Atlantic con un deludente La Diva che nel 1979 cerca di posizionarla nel circuito disco con risultati modesti, firma per l’Arista negli Eighties e per mantenere un appeal commerciale scende ad eccessivi compromessi, nonostante si circondi di produttori di livello come Burt Bacharach, Luther Vandross, Narada Michael Walden, licenziando dischi altalenanti con qualche picco (Who’s Zoomin Who? con Freeway of Love che la riporta dopo un decennio nella top 10) e troppi bassi. Il timbro resta inalterato, la potenza è sempre devastante, ma l’urgenza espressiva che l’aveva caratterizzata è ormai un ricordo. L’ultima grande prova è del 1987 e la riporta nella casa «gospel»: un doppio album storico registrato dal vivo One Lord, One Faith, One Baptism dove la voce – pur più matura e con qualche rotondità di troppo – è al centro di una storica performance in cui l’affiancano anche Mavis Staples e Joe Ligon dei Mighty Clouds of Joy.