Nei racconti dei vecchi compagni di Terlizzi – la cittadina dove sono nato e cresciuto nelle campagne a nord di Bari – fu una specie di scandalo per le élite locali ma fu anche un chiaro indizio del mutamento politico-sociale in atto: i figli delle più prestigiose famiglie monarchiche, quelle che sui loro balconi non smettevano di esporre le bandiere del Regno d’Italia, avevano reciso il cordone ombelicale con la propria classe sociale. Quei figli che erano andati a Bari si erano fatti comunisti, anzi ultracomunisti, persino maoisti. Anche nel nostro atollo di Sud era arrivato il Sessantotto. L’anno delle piramidi rovesciate, l’anno della fine del mondo: quando si può finalmente mettere in discussione tutto il potere e tutti i poteri.

UNO DI QUEI RAGAZZI figli della Terlizzi monarchica era Giancarlo Aresta. Per fama, lo conosco fin dagli anni della mia adolescenza. Ne ho sfiorato la vita e il carisma intellettuale quando ho cominciato a fare il correttore di bozze per la casa editrice De Donato, di cui era stato anima oltre che direttore editoriale. Poi lo vedevo nei corridoi dell’austera Federazione comunista di Via Trevisani, impegnato in conversazioni che si facevano spesso camminando: con lui si facevano «chilometri» di dialogo. Giancarlo, quel ragazzo magro e vestito di scuro, era davvero l’espressione di un grande rinnovamento dentro il Pci: quel Pci che faceva in qualche modo i conti con la grande rottura sociale e politica, che era venuta maturando ovunque nel mondo durante tutti gli anni Sessanta. Lui sapeva tenere insieme diverse storie e diverse generazioni di comunisti, curando l’insediamento sociale del partito nelle fabbriche e nelle scuole, investendo sull’alleanza tra operai e intellettuali, facendosi protagonista di un permanente lavoro collettivo di indagine sul territorio barese, sul suo profilo urbano, economico, culturale, sociale. Non fu mai un burocrate: anche perché era orgoglioso di essere un «funzionario di partito». Se aveva rinunciato ad una prestigiosa carriera universitaria, lui che era assistente del grande ispanista e poeta Vittorio Bodini, vuol dire che il Partito per lui era la «partita» che vale una vita.

INSIEME a Mario Santostasi, che fu il mitico segretario regionale della Puglia, insieme a quella straordinaria esperienza che fu la cosiddetta «école baresienne», visse anni di fuoco: quelli in cui il neo-fascismo barese, sempre a cavallo tra buona borghesia cittadina e malavita, entrò con una lama dentro la carne viva della nostra storia con l’omicidio di Benedetto Petrone. Gli anni del potere dei palazzinari che ridisegnano il profilo del capoluogo pugliese secondo gli interessi della rendita e della speculazione. Il dibattito politico dentro la federazione di Bari in quella lontana stagione era di un livello oggi impensabile (citerò solo due nomi tra i tanti che animavano quel luogo: Franco de Felice e Arcangelo Leone de Castris). E quella barese fu una delle trincee che con più forza intellettuale e morale si oppose alla dissipazione del Pci, alla morte cioè di un soggetto cruciale della formazione di una coscienza democratica del Paese.

Quel gruppo dirigente fu una grande scuola di cultura politica: anche se sconfitto politicamente nella Bari laboratorio del craxismo, fu per passione intellettuale e per generosità un punto di riferimento della storia civile della mia terra. E Giancarlo, con il suo saper ascoltare e saper dire sempre l’essenziale, con il suo garbo e la sua raffinatezza, con le sue camminate a spirale (intorno a un palazzo e intorno ad un oggetto di analisi), con i suoi silenzi pensosi e i suoi immensi sorrisi, era il più generoso di tutti.

ECCO, GUARDO gli eroi del nostro tempo, assisto sgomento al surf propagandistico cui è ridotta la politica, e rivedo Giancarlo Aresta di una vita fa: profondo, ironico, versatile, combattivo sempre, mai capace di demagogia e di menzogna. Penso che abbia vissuto la fine del Pci come una morte, anche se ha saputo dare nuove forme e nuove missioni al suo essere un militante comunista.

Negli anni in cui ho svolto le funzioni di governatore della Puglia, ho portato nell’esperienza di governo un pezzo di quella storia, di quella Federazione: e ogni volta che chiacchieravo con la nostra dolcissima e fortissima Alba Sasso, che è stata nella mia giunta come assessore all’istruzione e alla ricerca, le chiedevo di Giancarlo, il suo compagno di tutta la vita. Che dice, che pensa Giancarlo? Anche da lontano era impossibile non volergli bene. Noi continueremo a volergliene.