La scomparsa di Giancarlo Aresta è un lutto assai doloroso per tutta la sinistra comunista. Penso in primo luogo alla sua presenza fervidamente rigorosa e incisiva nel Sessantotto barese: una presenza capace di contribuire a intrecciarne originalmente i due aspetti fondamentali, cioè la critica radicale, inaudita, degli assi culturali-formativi, dei nessi tra «scienza e capitale» da un lato e la irruzione della lotta politica nella vita quotidiana dall’altro. Erano come due stimmate (proprie anche di molti e molte di noi) che egli si portava addosso con una fermezza pensosa che appariva stranamente dolce.

Negli anni del cosiddetto «secondo biennio rosso» (’68-’69), la casa di Giancarlo e della sua compagna Alba Sasso divenne un luogo permanente di dibattito, di riflessione e di vita politica, in cui veniva abolito, in una sorta di «utopia concreta», il concetto stesso («borghese») di tempo libero: tra inni partigiani, canzoni di lotta, citazioni di testi sacri del movimento operaio.

Esaurita la spinta propulsiva di quel biennio, Giancarlo decise, con altri e altre, di iscriversi al Pci, tra le cui file svolse poi con passione puntigliosa la sua attività militante sino a diventarne segretario provinciale.

Non si può non ricordare la sua scelta, che apparve sorprendente, ma fu rigorosissima, di dimettersi dal suo ruolo di assistente universitario. Quando avvenne la cosiddetta svolta della Bolognina, egli si oppose, come molte e molti di noi a Bari, allo scioglimento del Partito comunista italiano e in seguito non volle aderire a nessuna formazione politica. Per anni ha lavorato con tenacia al Manifesto: mi piace pensare, anzi sono convinto, che Giancarlo, con ferma e pudica convinzione, abbia vissuto questo lavoro come un lavoro intimamente politico.