Che il consenso popolare verso l’assetto «germanocentrico» dell’Unione europea si sia negli ultimi due anni gravemente incrinato è fin troppo evidente. Le ricette di lacrime e sangue imposte alla Grecia, al Portogallo, alla Spagna e naturalmente all’Italia hanno reso manifesto perfino ai ciechi che cosa abbia significato concepire l’integrazione in assenza di meccanismi di compensazione fiscale capaci di costringere i Paesi in surplus (con in primis giusto la Germania) a riciclare i propri avanzi commerciali, in modo da evitare che l’onere dell’aggiustamento delle bilance commerciali ricadesse esclusivamente sui Paesi debitori. E gli enormi costi in termini di perdita di reddito, disoccupazione e sofferenza sociale patiti da questi ultimi stanno chiamando al redde rationem una classe dirigente che, appena dieci anni fa, scommetteva incoscientemente (o forse in malafede?) sulla possibilità che gli squilibri causati dai differenziali di produttività tra i vari Paesi dell’Unione inducessero uno scatto di reni in direzione dell’unificazione politica.

Oggi quella scommessa è miseramente fallita: salvo le anime belle, non c’è più nessuno che, parlando seriamente, non ammetta che l’eurozona, al momento, è un morto che cammina e che tutti i Paesi che ne fanno parte stanno già pensando – chi più, chi purtroppo meno – a come salvarsi quando deflagrerà definitivamente.

Può sembrar strano, ma è precisamente questo il contesto entro cui inquadrare la finale di Champions’ League, che due squadre tedesche – Bayern Monaco e Borussia Dortmund – si disputeranno stasera sotto l’arco di Wembley. Sì, perché fin dal fischio finale dell’ultima eliminatoria (quella che ha visto il Bayern strapazzare i fantasmi del Barcellona, dopo che il Borussia aveva prevalso di un soffio sul Real Madrid) è stato tutto un coro volto a magnificare i «brillanti risultati» del calcio tedesco: bilanci in ordine, stadi pieni, condivisione dei guadagni derivanti dai diritti televisivi, investimenti nella formazione dei giovani. Un coro pressoché unanime e naturalmente bipartisan, in armonia con le «larghe intese» che governano le sorti del nostro Paese. E il cui obiettivo, nemmeno tanto recondito, è di avvalersi dell’immaginario calcistico per rilanciare quel «modello tedesco» di integrazione europea che registra consensi in picchiata tra le masse.

Non è certo la prima volta che l’ideologia dominante ricorre all’immaginario calcistico per veicolare i propri contenuti: lo stolido insistere sull’importanza del «fuoriclasse», che nella communis opinio conta sempre assai più dell’organizzazione collettiva della squadra, ne costituisce forse il miglior esempio. Tuttavia, i peana levatisi a favore dell’«esempio tedesco» non esaltano il genio individuale a scapito dell’efficienza del gruppo, non foss’altro che nel Bayern o nel Borussia non c’è nessuno che possa stare alla pari di un Messi o anche solo di un Ibrahimovic. Il leit-motiv è piuttosto un altro e punta a consolidare quell’orrore per il «debito» che i tedeschi hanno inscritto fin nella loro lingua madre. Si tratta infatti di suscitare un immaginario adeguato al tempo della crisi dell’accumulazione capitalistica: quel tempo in cui, per dirla con Marx, «il denaro trapassa improvvisamente dalla sua figura aerea, arzigogolata dal cervello, di misura dei valori a quella di solida moneta ossia mezzo di pagamento», e in cui quel «subitaneo trapasso del sistema creditizio a sistema monetario», che oggi chiamiamo crisi finanziaria, «aggiunge il terrore teorico al panico pratico, e gli agenti della circolazione rabbrividiscono dinanzi al mistero impenetrabile dei loro propri rapporti». «Il debito è colpa», ci dicono al riguardo i tedeschi, che com’è noto racchiudono entrambi i concetti in un’unica parola (Schuld).

E lo stesso ci ripete l’Uefa, almeno da quando, nel maggio 2010, si è dotata di un nuovo sistema di regole per disciplinare l’accesso alle competizioni europee: un sistema denominato «Financial Fair Play» e che, attraverso la cosiddetta Break-even rule, punta a far sì che, per ciascuna squadra, il saldo economico d’esercizio (cioè la differenza fra costi e ricavi) non possa risultare negativo per un importo complessivo stabilito in 45 milioni di euro per il primo biennio di applicazione della regola, ma destinato progressivamente a scendere negli anni successivi.

Si tratta, com’è evidente, di un meccanismo del tutto analogo al «Patto di stabilità» che governa ferreamente l’Unione europea, imponendo tetti massimi al rapporto deficit/Pil e debito/Pil e costringendo i Paesi non in regola a dismettere il patrimonio pubblico e a tagliare le spese pubbliche e i salari: semmai qualcuno ne dubitasse, potrà utilmente esercitarsi ad accostare le sorti toccate negli ultimi due anni alla Grecia e all’Inter. Ma siccome l’ideologia propria di una forma di vita ormai in crisi irreversibile non può che ammantarsi di «falsa coscienza», l’anatema contro il debito e il lavacro delle sue colpe doveva pur accompagnarsi alla promessa di una redenzione futura. La quale ultima, nelle parole dell’attuale presidente dell’Uefa, Michel Platini, ha assunto – manco a dirlo – una forma pressoché sovrapponibile all’utopia walrasiana del perfetto mercato concorrenziale, che ha ispirato (e ispira) gli idéologues dell’Unione europea: vale a dire, l’utopia di un campionato in cui, grazie alla regola del Fair Play finanziario, «diminuirà la differenza tra grandi e piccoli club», così da spezzare la monotonia di quelle competizioni che «si giocano sempre e soltanto fra due o tre squadre» e da «rendere la competizione interessante e avvincente per la gente che paga».

Un Paese di Bengodi, insomma, di cui – dicono gli apologeti – la Bundesliga sarebbe già concreta prefigurazione: non solo per ciò che concerne i bilanci in attivo, ma soprattutto per gli investimenti nei settori giovanili e lo sbarramento eretto nei confronti di certi personaggi equivoci, dalle oscure origini e dai molti denari, che hanno fatto le fortune e talvolta le sfortune delle squadre di Premier League (e che ogni tanto fanno capolino anche dalle nostre parti). Non è perciò un caso che l’Uefa abbia affiancato all’introduzione della Break-even rule due regole come la possibilità di detrarre dal computo dei costi le spese per settori giovanili, attività sociali e costruzione di infrastrutture e, rispettivamente, l’obbligo di coprire le perdite mediante apporto di nuovo capitale, con esclusione di prestiti dei soci (i soft loans così celebri in Inghilterra) e/o di operazioni di maquillage contabile: si tratta all’opposto di complementi necessari affinché tutti noi, reprobi peccatori indebitati, possiamo finalmente avviarci verso quella salvazione annunciata già da Lutero a Wittemberg e adesso da Frau Merkel a Berlino.

In effetti, pochi dubbi possono sussistere sulla crisi dell’industria calcistica europea. Limitando lo sguardo ai quattro anni fra il 2006 e il 2010, i dati raccolti in una recente inchiesta di Giancarlo Teotino e Michele Uva (Il calcio ai tempi dello spread, pubblicata per il Mulino) ci dicono che, a fronte di un incremento rilevante dei fatturati delle squadre di vertice (frutto in larga misura della crescita di oltre il 60% dei ricavati dei diritti televisivi), è aumentato in modo più che proporzionale l’onere dei costi per il personale (+67%). Conseguentemente, è aumentato il peso percentuale di quest’ultimo rispetto ai ricavi (dal 54% al 64%), il che ha provocato un’ulteriore riduzione dell’utile di gestione: nel 2010 oltre il 56% delle società calcistiche delle cinque leghe più importanti d’Europa ha chiuso in perdita e nel 29% dei casi la perdita ha superato il 20% del fatturato.

Tutto ciò ha accresciuto il debito complessivo dei club e ha impoverito il loro patrimonio. La Spagna ne è forse la migliore dimostrazione: il relativo equilibrio economico esibito da Real Madrid e Barcellona si deve infatti alla vendita individuale dei diritti televisivi delle loro partite, che permette alle due squadre di vertice della Liga di incassare la fetta più consistente del totale dei ricavi ascrivibili a questa voce, ma per tutte le altre squadre la situazione è pressoché fallimentare, al punto che, all’inizio della stagione 2011-2012, tutti i calciatori sono scesi in sciopero per reclamare il pagamento di oltre 50 milioni di euro di stipendi arretrati a favore di 200 loro colleghi. E l’Italia non sta certo messa meglio: negli ultimi quattro anni, il risultato netto complessivo dei club della Serie A è precipitato da -150 milioni a -300 milioni, l’indebitamento lordo è cresciuto da 1.893 a 2.659 milioni e il patrimonio netto si è ridotto da 403 a 150 milioni di euro. Il tutto nonostante che il ritorno alla contrattazione collettiva dei diritti televisivi abbia mantenuto in crescita costante i relativi ricavi.

A fronte di questa situazione, si dice, la Germania rappresenta un’eccezione virtuosa. I club tedeschi hanno adottato i principi di una sana gestione economica (cioè, capitalistica): niente mecenati bizzosi come presidenti-padroni, ma strutture societarie prevalentemente fondate sull’azionariato diffuso; niente spese folli per accaparrarsi esotici fuoriclasse, ma solo buoni (e talora ottimi) giocatori, i cui stipendi che procedono di pari passo con l’aumento delle entrate; niente piagnistei per invocare benefici fiscali, ma oculati piani d’investimento a lungo termine per l’ammodernamento degli stadi e l’implementazione delle strutture giovanili; soprattutto, ci assicura Platini, niente campionati già decisi alla prima giornata, ma tornei più incerti e aperti, a conferma che l’equilibrio economico-finanziario garantisce una competitività più diffusa. Come non desumerne che la partita di stasera – primo derby tedesco in una finale di Champions – non stia raccontando dell’alba di una nuova era?

In verità, a saperli leggere, i dati raccontano ben altro. Ci dicono, ad esempio, che non è vero che la Bundesliga sia un modello di equilibrio competitivo: basti pensare che, negli ultimi vent’anni, il titolo è stato vinto per undici volte dal Bayern e per cinque volte dal Borussia Dortmund. Certo, accade praticamente lo stesso in Premier League (tredici volte ha vinto il Manchester United, tre volte ciascuno Arsenal e Chelsea) e in Serie A (sette titoli per la Juve, sei per il Milan e cinque l’Inter), e accade perfino di peggio nella Liga (sei vittorie per il Barcellona e quattro per il Real Madrid negli ultimi undici anni). Ma che accada anche in Germania conferma che quella di Walras è niente più che un’utopia e che il mercato capitalistico funziona costantemente all’ombra della marxiana legge della centralizzazione dei capitali.

Ancor meno i dati supportano l’idea che l’oculata gestione economica abbia garantito ai tedeschi chissà quali brillanti performance sportive. Il ranking Uefa, ossia la classifica che tiene conto dei risultati ottenuti dai club nelle competizioni europee, vede la Germania solo al terzo posto, immediatamente alle spalle dell’Inghilterra e – udite udite! – dell’indebitatissima Spagna. Appena tre anni fa, perfino l’Italia stava davanti ai tedeschi. Le squadre tedesche hanno vinto la Champions League appena sei volte (contro le tredici delle spagnole e le dodici delle italiane e delle inglesi) e altrettante volte l’Europa League (contro nove volte delle italiane e sette delle spagnole e delle inglesi). Ma soprattutto, l’ultima vittoria tedesca in una competizione europea per club risale al 2001; per il resto, la Germania si è distinta per sconfitte, avendo perso per nove volte nelle finali di Champions e per due volte in quelle di Europa League.

Una performance sportiva così deludente (sì, perché Mourinho ha ragione: «non c’è spettacolo nella sconfitta») non conferma soltanto il carattere squisitamente ideologico dell’improvvisa infatuazione per il calcio tedesco, ma consente di spiegare perché mai la norma delle squadre vincenti sia stata finora letteralmente antitetica rispetto al dogma della «finanza sana»: più o meno quanto era antitetico il gaudente Keynes rispetto al pallosissimo von Hayek. Il combinato disposto della sopravvenuta libertà di circolazione dei calciatori e della scoperta dell’oro dei diritti televisivi ha reso infatti l’insieme delle società di calcio come un gigantesco contenitore preposto unicamente a trasferire ai calciatori la gran parte delle entrate. Più precisamente, il fatto che ci fossero proprietà del tutto indifferenti alla realizzazione di utili a breve e disposte a spendere qualunque cifra pur di vincere ha generato un duplice modello di gestione dei club: da una parte, le squadre orientate a primeggiare nelle competizioni di prima fascia di livello nazionale e internazionale, che necessitavano di impiegare giocatori di elevata qualità (cioè costosi o costosissimi); dall’altra parte, le squadre orientate al trading sui propri calciatori e che allenavano giovani talenti del proprio vivaio o raccattati facendo scouting all’estero allo scopo di «lanciarli» per poi rivenderne il cartellino.

Che si trattasse di un sistema decisamente labour-oriented non è difficile da comprendere: se un presidente di un club di prima fascia non era disposto a pagare ingaggi astronomici ad un Messi o ad un Ronaldo, ne spuntava un altro subito pronto a farlo, il che costringeva tutti a stare al passo e garantiva crescenti opportunità ai giovani emergenti. Si spiega così che la fetta più cospicua degli introiti favolosi dei ricavi del calcio sia finita in questi anni nelle tasche dei giocatori migliori: in un modello del genere, tutto il reddito prodotto dal lavoro resta al lavoro e non c’è spazio per alcuna remunerazione del capitale. Se ne accorsero quasi subito i dirigenti di quelle squadre grandi e talora meno grandi che, a metà degli anni ’90, sull’onda della liberalizzazione seguita alla sentenza Bosman e dell’esplosione degli incassi tv, pensarono di poter fare profitti col calcio e si diedero a favoleggiare di merchandising e costruzione del brand: dopo pochi anni finirono seppelliti dai debiti e fallirono miseramente. Già, perché la relazione postulata dagli analisti tra fatturato e successi sportivi non è che un banale truismo: la catena causale muove in realtà dagli stipendi pagati, che sommati ai titoli vinti riescono a produrre fatturati consistenti, rendendo così sostenibile anche un elevato indebitamento.

Il Barcellona «quantistico» di Guardiola, Messi, Xavi e Iniesta ne ha costituito indubbiamente la migliore dimostrazione. È del tutto consequenziale che in un sistema del genere il calcio tedesco non potesse riportare (come di fatto non ha riportato) alcuna vittoria di prestigio: una spesa per stipendi inferiore di venti punti percentuali rispetto alla media europea e l’abitudine di distribuire utili agli azionisti non sono «virtù» se non per il capitale.

E dunque non è un caso se la revanche capitalistica impostasi nell’eurozona abbia alla fine preteso di riscrivere a propria immagine e somiglianza anche le regole che presiedono alla formazione delle gerarchie calcistiche: il calcio è l’inconscio sul prato verde della società e non era possibile che l’ordine del discorso dominante patisse una così smaccata sovversione nell’immaginario collettivo. Sotto questo profilo, anzi, non sfuggirà la potenza simbolica di questa finale tedesca celebrata nel tempio del calcio britannico: conferma una volta di più che l’inglese è la lingua madre del capitale, ma è l’etica protestante che gli dona il soffio dello spirito. «Calciatori e tifosi degli altri Paesi, unitevi!», verrebbe fatto di concludere. E tanto per cominciare, stasera, spegnete la tv.