La commedia Madamu to nyobo uscita nel 1931, e Carmen ritorna a casa del 1951 sono due film epocali per la storia della settima arte nell’arcipelago. Mentre Madamu to nyobo, diretto da Heinosuke Gosho, è il primo esempio di film con il sonoro (che non sia con un benshi, il narratore), Carmen ritorna a casa di Keisuke Kinoshita è il primo film giapponese a colori. Entrambi i lavori sono legati da un comune denominatore, furono infatti prodotti dalla Shochiku, una delle case di produzione giapponesi più importanti, fondata nel 1920, quindi esattamente 100 anni fa. La pandemia ha alterato i piani per questo 2020, anno che doveva essere per lo studio un periodo durante il quale celebrare un secolo di glorioso cinema, ma proiezioni speciali si sono comunque tenute in giro per l’arcipelago, naturalmente in tono ed in scala assai minore. Matsujiro Shirai e Takejiro Otani fondarono la Shochiku nel 1895, dapprima come una compagnia attiva nel mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento, specialmente il kabuki, e 25 anni più tardi decisero di provare la via nella nascente industria cinematografica, formando la Shochiku Kinema Gomei-sha ed aprendo uno studio a Kamata, Tokyo.

UNO DEI TASSELLI fondamentali per la creazione della Shochiku come la conosciamo oggi è la nomina di Shiro Kido come direttore dello studio nel 1924. É anche grazie a questo intraprendente uomo di spettacolo che la compagnia ruscì nei decenni a venire a differenziarsi dalle altre case di produzione giapponesi. Kido infatti credeva nel lavoro e nella creatività dei registi, creò una vera e propria scuola per attori ed attrici, cosa non scontata visto che molti ruoli femminili venivano interpretati, come da tradizione teatrale, da uomini, e non ultimo, voleva che i film rappresentassero storie di vita contemporanea (gendaigeki), non quelle dei samurai o ambientate nel passato (jidaigeki). Negli anni a venire il cinema giapponese si sarebbe sviluppato lungo questi due filoni in due città distinte, il gendaigeki a Tokyo e il jidaigeki a Kyoto. I gendaigeki della Shochiku si evolvono ulteriormente a partire dalla fine degli anni venti, quando i suoi film diventano di fatto dei lungometraggi in cui sono descritte le gioie ed i dolori della gente comune, i cosiddetti shoshimin eiga. Il regista che eccellerà e che diventerà il simbolo di questo universo cinematografico è naturalmente Yasujiro Ozu. Nello stesso periodo in cui Ozu si affacciava al mondo del cinema attraverso la Shochiku, altri grandi registi sarebbero diventati nomi di spicco dello studio di Ofuna, la zona dove la compagnia si trasferì nel 1936, Keisuke Kinoshita, Mikio Naruse, ma anche Hiroshi Shimizu. Forse il meno meno noto del gruppo, Shimizu è stato parzialmente riscoperto in questi ultimi decenni, autore di un cinema quasi d’avanguardia prima del conflitto mondiale, ricordiamo almeno il capolavoro Arigato-san del 1936, dopo la guerra continuò il suo originale percorso lavorando con attori non professionisti e bambini, dando largo spazio all’improvvisazione.

DURANTE la Seconda Guerra Mondiale, come tutti gli altri studi cinematografici dell’arcipelago, anche la Shochiku fu praticamente cooptata dalla macchina da guerra nipponica per realizaare film di propaganda. Nel 1945 in una Tokyo ridotta ad un ammasso di macerie, pensare al cinema era cosa assai difficile, solo 35 dei cinema di proprietà della compagnia restavano in piedi e bisognava ricominciare tutto da capo. È in questo momento cupo però che le parole di speranza pronunciate da Kido prima della guerra tornarono probabilmente a risuonare «si può vedere l’umanità in due modi, solare o tetro. Quest’ultimo non fa per noi, qui alla Shochiku noi preferiamo vedere la vita dal suo lato più empatico e pieno di speranza. Indurre i nostri spettatori alla disperazione sarebbe imperdonabile. Il punto è che alla base del cinema ci deve essere la salvezza».

UN MESSAGGIO positivo legato alle contingenze storiche di un cinema pre-bellico che stava cercando la sua forma e che sarebbe stato sovvertito nei decenni successivi in molte occasioni, con buona pace di Kido. Sono nato ma… (1932) di Ozu fu ad esempio posticipato di molti mesi in quanto ritenuto troppo cupo, e, caso più clamoroso, Notte e nebbia in Giappone di Nagisa Oshima nel 1960, fu ritirato dai cinema dopo solo tre giorni, per il suo forte contenuto politico. Non solo Oshima ma anche altri cineasti che sarebbero diventati nomi illustri nel panorama cinematografico mondiale dagli anni sessanta in poi, iniziarono la loro carriera alla Shochiku per poi ribellarsi e cercare l’indipendenza artistica altrove. Dopo la fuga di questi nuovi autori, non solo Oshima, ma anche Shohei Imamura, che lavorò con Ozu come aiuto regista, Masahiro Shinoda e Kiju Yoshida, la casa di produzione, come tutta l’industria cinematografica giapponese dovette fare i conti con la crisi creata da una serie di fattori, non da ultimo l’avvento della tv. Mentre produzioni come la Nikkatsu sopravvissero anche grazie ai pink eiga (film softcore), non è esagerato affermare che la Shochiku deve la sua sopravvivenza, almeno durante gli anni settanta, alla mano di un solo regista, Yoji Yamada.

DAL 1969 AL 1995 Yamada realizza 49 lungometraggi, tutti tranne due diretti da lui, con protagonista Kiyoshi Atsumi nel ruolo di Tora-san, un simpatico venditore ambulante e le sue avventure in giro per il Giappone. Caso unico nella cinematografia mondiale, il cast di questa serie rimane praticamente invariato per tutti i 26 anni, con bambini che diventano adulti e genitori che invecchiano, una sorta di Boyhood ante-litteram. La serie ha avuto un epilogo, senza Atsumi che è scomparso nel 1995, lo scorso dicembre con l’uscita di Tora-san 50, una sorta di reunion, al di là del valore del film in sè, il cinema come arte del/nel tempo è qui al suo picco. Il cinema di Yamada, è la sintesi perfetta di cosa è stata la casa di produzione in questi suoi primi 100 anni. Apparentemente storie ordinarie e comiche fatte di piccoli avvenimenti di poca importanza storica, o che si muovono sullo sfondo della Storia con la S maiuscola, ma che spesso dicono molto della capacità delle persone di muoversi fra le difficoltà della vita e della capacità di accettare i propri limiti.