Storie di edifici, di città, di grafici, designer e architetti. Storie che solitamente lasciano parlare le opere, le fotografie, i libri e i disegni ma, per la prima volta a Milano, le grandi opere e gli scenari urbani lasciano al potenziale del cinema il compito di analisi e rappresentazione. Da ieri infatti è in corso la prima edizione del Milano Design Film Festival, rassegna internazionale a ingresso gratuito presso l’Apollo Spazio Cinema, di film dedicati all’architettura e al design curata da Antonella Dedini e Silvia Robertazzi.
I ventiquattro documentari, alcuni in prima visione assoluta per l’Italia, raccontano la genesi di grandi opere, i segreti e gli aneddoti del mestiere di progettisti, lo studio degli scenari urbani, ritratti di grandi personalità come Charles e Ray Eames, Ron Gilad, Norman Foster e uno sguardo anche sull’urbanistica del nostro paese con la proiezione del dittico romano di Gianfranco Rosi Tanti futuri possibili e Sacro GRA.
Cuore del festival però non poteva non essere il mondo americano della grafica e dell’architettura, anche per la concomitanza con Autunno Americano, stagione di eventi multi culturali dedicati agli Stati Uniti che sta invadendo di stelle e strisce la città, con decine di iniziative che spaziano dall’arte al teatro. L’architettura, in modo particolare, viene attraversata dal mezzo virtuale più immediato, il cinema, per essere veramente compresa nella sua realizzazione. É il caso di tre documentari di valenza didattica, nel miglior senso della parola, a cominciare da due lavori di Jack Grost: Modern Tide: Midcentury Architecture on Long Island, (domenica alle 15.15), e Desert Utopia: Midcentury Architecture in Palm Springs (proiezione oggi alle 13.00). Nel primo, il regista riscopre la Long Island agricola e modernista, prima della barbara colonizzazione degli ultimi decenni, vivace di artisti, intellettuali e architetti che vissero e operarono nella zona, domandando con forza una nuova dignità alle opere di Albert Fey e Marcel Breuer, che purtroppo hanno cominciato ad essere distrutte per far spazio a nuove superstrade.
Il secondo straordinario viaggio di Grost è nel «museo virtuale» di Palm Springs, sorta di mecca modernista che vide a partire dagli anni Quaranta, una stupefacente fioritura di architetture ibride fra le secolari rocce del deserto e gli impulsi astratti dei tempi moderni. Il documentario ripercorre i lavori di Richard Neutra, William Krisel e molti altri sotto una luce quasi da utopisti in territori vergini e ostili, da pionieri di frontiera non più alla ricerca dell’oro ma di un’armonia uomo-natura, lo stesso afflato che albergava anche in Frank Lloyd Wright, alfiere dell’architettura organica. Fallingwater: Frank Lloyd Wright’s Masterwork di Kenneth Love (proiezione sabato alle 16.45), è infatti il viaggio all’interno della mitica casa sulla cascata, agognata da tutti fin dai tempi del sussidiario, raccontato da Edgar Kaufmann Jr, figlio dell’omonimo industriale che commissionò il progetto a Wright nel 1935. Curiosità e ricordi personali regalano nuovo splendore a questo modello eterno e definitivo di dinamismo, di assorbimento e compenetrazione fra spazi aperti e chiusi e di totale integrazione di elementi naturali con l’opera dell’uomo.
Dai maestri dell’edificio si scivola alla graphic design e più precisamente alla quintessenza del tratto grafico: Milton Glaser, figura quasi rinascimentale per eclettismo, e per dichiarata ispirazione. Milton Glaser: To Inform and Delight, bellissimo titolo ricavato da un’affermazione del manifesto Bauhaus – in anteprima italiana sabato alle 18.30 – segue a ritmo di jazz il multiforme genio e la sterminata produzione artistica dell’illustratore americano. Dai primi corsi di storia dell’arte, con annesso viaggio in Italia e l’apprendistato con Giorgio Morandi, alla fondazione del collettivo Push Pin Studios, la personalità di Glaser, che si racconta in prima persona con ironia e garbo davanti alla macchina da presa di Wendy Keys, sboccia con i colori e i piaceri della controcultura (i poster ormai iconici di Bob Dylan dai riccioli arcobaleno, di Aretha Franklin e Simon & Garfunkel) interpretando successivamente la cultura popolare con pochi tratti (il logo I ? N Y possiede una perfezione di riproducibilità simile a una legge matematica) senza mai essere incapsulato in un solo stile. Una mano senza inibizioni in grado ancora oggi di informare e allietare con la semplice disinvoltura