Mentre la 56ma Biennale d’arte continua una navigazione tranquilla e accompagnata da un buon consens,o qualcosa si è mosso sul fronte della prossima mostra di architettura, la XVI Biennale in programma per il 2016. Le notizie rilevanti sono essenzialmente tre: la decisione di confermare l’apertura «lunga», da giugno a novembre; la scelta del curatore, nella persona dell’architetto cileno Alejandro Aravena; la comunicazione alla stampa del titolo della 15ma biennale di architettura di Venezia: Reporting from the Front, «notizie dal fronte».

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Alejandro Aravena

Cominciamo dalle date. Dopo la «forzatura» di Koolhaas, che nel 2014 aveva fortemente voluto riportare la mostra di architettura alla stessa durata di quella di arte, ci si aspettava che le ragioni di bilancio e sostenibilità organizzativa spingessero Baratta a tornare alle vecchie date, con apertura a fine agosto e chiusura a novembre. Invece si è scelto di proseguire sulla strada intrapresa da Fundamentals. I vantaggi sono tutti dalla parte dei visitatori (e della città): più tempo per programmare un viaggio a Venezia, più sovrapposizione con i calendari accademici e dei viaggi studenteschi, minor congestione a fine agosto, quando i vernissage dell’architettura finiscono fatalmente per sovrapporsi con l’inizio del festival del cinema, intasando alberghi (e relativi prezzi), strutture della biennale, pagine culturali e uffici stampa.

La seconda notizia interessante è la scelta del curatore. Cileno, 48enne con esperienze universitarie e postuniversitarie a Venezia (parla un discreto italiano), titolare dal 1994 dello studio Alejandro Aravena Arquitecto con sede a Santiago. Come spesso accade ai migliori architetti cileni, all’inizio della sua carriera Aravena ha collaborato spesso e volentieri con la sua università (Catolica di Santiago) e con altre istituzioni accademiche cilene. Ne sono nati una serie di progetti importanti – tra cui la Scuola di Matematica (1998), la Facoltà di Medicina (2001). La Scuola di Architettura (2004) – che già una decina di anni fa permettevano di collocarlo nella lista dei «giovani architetti» più produttivi e interessanti del mondo. La svolta della carriera e l’affermazione fuori dai confini sudamericani arriva con l’inizio del nuovo millennio.

Dal 2000 è docente ad Harvard; dal 2006 al 2009 lavora al suo progetto meno formale e più concosciuto, il sistema Elemental per l’housing a basso costo e alto impatto sociale in Cile, nel 2008 è incaricato per lo studio di un prototipo di casa unifamiliare a New Orleans (post-catastrofe) e del Children Workshop per Vitra a Weil-Am Rhein. I suoi lavori più recenti sono un Innovation Center per la Catolica, ieratico e introverso, il piano di ricostruzione di Constitution dopo il terremoto del 2010 e il progetto di uno degli edifici del campus Novartis in Cina.

Nella sua biografia, in fondo a un’interminabile lista di premi, mostre personali e titoli onorifici, troviamo ancora qualche notizia interessante in relazione a questa mostra: le molte partecipazioni alla biennale veneziana, con un Leone d’argento nell’XI/ma edizione, e la presenza continua, dal 2008 a oggi, nella giuria del Pritzker Prize, un ottimo punto di osservazione sul paesaggio architettonico globale. Per dirla in modi meno burocratici, Aravena è architetto «praticante» al 100%, incline a esprimersi attraverso il progetto e a considerare l’architettura non come un campo di battaglia puramente ideologico/artistico ma come il luogo concettuale dove i progettisti cercano il modo per contribuire con le loro innovazioni a costruire un mondo che funzioni meglio e che non sia troppo brutto. Com’era facile immaginare, siamo agli antipodi – non solo geograficamente – della mostra dell’olandese Koolhaas. Non c’è l’ossessione introspettiva dei suoi elements della costruzione e non c’è neanche la vocazione da trendsetter planetario del guru di Rotterdam. Tutto giusto e tutto positivo, naturalmente, anche se per sopravvivere a una mostra smisurata e ingovernabile come la biennale (e l’accoppiata giardini/corderie) un qualche quadro concettuale generale serve, e come.

Il che ci porta dritti alla terza notizia, e quindi al titolo/tema della mostra, annunciato per la prima volta dal curatore in un incontro informale con la stampa di qualche giorno fa: le notizie dal fronte. Di che fronte parliamo? All’architettura, secondo Aravena, spetta di interagire con le comunità per affrontare le questioni più urgenti e dolorose. I luoghi dell’abitare, le ricostruzioni post-catastrofe, gli spazi pubblici, urbanità e mega-urbanità, l’educazione rappresentano tutti insieme una linea del fronte lungo la quale l’architettura deve schierarsi e offrire i suoi strumenti alla collettività per portare a casa il numero più alto possibile di battaglie. Dai progettisti che inviterà non si aspetta né una carrellata di bei progetti né una scelta di puro attivismo/situazionismo, che finirebbe per rendere afona l’architettura. Lontano da questi estremi, il curatore chiederà proposte e strategie, e solleciterà gli autori a trasformare queste proposte in un materiale espositivo convincente.

Alejandro Aravena viene da un contesto architettonico molto specifico, quello sudamericano in generale e quello cileno in particolare. In Sudamerica la fiducia nell’architettura non è mai mancata e il ruolo dell’architetto non è continuamente messo in discussione, come invece accade altrove. L’architetto latinoamericano, moderno per definizione, risponde a questa aspettativa con un misto di pragmatismo e formalismo – architetture belle, solide, individuali e costruttivamente ardite – che trova buon riscontro nella società. Soprattutto in Cile, paese che vanta una storia particolare e una condizione economica privilegiata, tutto questo corrisponde da decenni a una tradizione architettonica solida e riconosciuta all’estero, basata su università ottime e molto influenti rispetto al mondo professionale, buona capacità tecnica, committenti sensibili e libertà espressiva.

In generale, coerentemente col clima politico del paese, si tratta di architettura «di mercato» – case unifamiliari, ristoranti, sedi di società ecc. – o edifici pubblici «di servizio», come ospedali, università e altri interventi governativi. Con il programma Elemental Aravena ha rotto questo equilibrio che durava dal dopoguerra e ha spostato l’architettura verso un’idea di welfare nuova, fatta di un ibrido tra costruzione assegnata e autocostruzione, di dialogo con gli abitanti, di negoziato tra libertà individuale ed economia di scala, di uso di materiali poveri e soluzioni inattese, di profit sostenibile.
Probabilmente Baratta ha pensato fosse il caso di offrirgli una tribuna per estendere questo suo messaggio alla comunità architettonica globale, trovando allo stesso tempo una soluzione a sorpresa a un problema non semplice, vale a dire la prima biennale dopo il «catalogo» di Koolhaas.