Al fascino di una città come Berlino è difficile sfuggire. L’ex capitale guglielmina, tornata a essere – dopo la Riunificazione – polo trainante per la Germania e punto di riferimento per l’Europa tutta, è città dai tanti volti, dalle possibilità multiple, una città-laboratorio emblematica di tanti processi del Moderno, la più «americana» d’Europa (una sorta di Chicago sulla Sprea), capace di attrarre magneticamente personalità da ogni parte d’Europa stimolando grandi esperienze creative. A essa il germanista Luigi Forte ha dedicato il volume Berlino città d’altri Il turismo intellettuale nella Repubblica di Weimar (Neri Pozza «I colibrì», pp. 229, euro 18,00). L’arco storico privilegiato di questa indagine che appare costruita come un montage di esperienze e citazioni è quello in cui la città si rivela pervasa da un fervore culturale e da tendenze innovative nel campo della tecnica, dei trasporti metropolitani, del costume e della moda, della vita sessuale, del commercio e della gastronomia (con l’affermarsi di grandi empori americanizzanti come Wertheim, Karstadt, Tietz e KaDeWe) e della stessa vita notturna, che catturano e stregano la folla. Si tratta di Ingredienti che hanno esercitato – all’epoca – un forte appeal anche su intellettuali soprattutto russi, inglesi o americani, francesi e italiani (tali sono i raggruppamenti passati in rassegna in corrispettive sezioni del libro). Proprio questi ultimi, protagonisti più o meno consapevoli di una sorta di «turismo intellettuale» (come Forte ironicamente lo definisce), finiscono così per ridisegnare il volto della Berlino degli anni fra il 1919 e il 1933 da loro amata (o, a volte, detestata), una città peraltro non risparmiata da nubi che si erano annunciate – fosche – all’orizzonte, preludendo all’avvento del nazismo.
Preziosi sono dunque gli incroci e gli scambi culturali determinatisi grazie alla copiosa messe dei «visitatori esterni» suggestionati dalla vita socio-culturale di Berlino: dai suoi teatri e caffè letterari, dai suoi rioni più o meno noti, dai suoi centri gastronomici, dai suoi spettacoli cabarettistici. Ne risulta, così, un grande affresco degli umori, delle tensioni, delle ambivalenze, delle euforie e delle illusioni di questa città in cui perdersi come in un labirinto (secondo un’immagine di Walter Benjamin). Davvero impressionante è la mole dei «turisti intellettuali» passati in rassegna nel libro: dai russi Belyi, Pasternak, Šklovskij, Ehrenburg e Nabokov agli inglesi Auden, Isherwood, Beckett e Virginia Woolf, ai francesi Crevel, Giraudoux, Johandeau, Aragon, Breton, Pierre Bertaux, Simone Weil, Gide e Simenon, agli italiani Corrado Alvaro, Giuseppe Antonio Borgese, Pier Maria Rosso di San Secondo, Pietro Solari, Paolo Monelli, Marinetti e Pirandello. Accanto a essi Luigi Forte dà voce a «esegeti della modernità» quali Simmel, Walser, Kafka, Brecht, Bloch, Kracauer, Piscator, Döblin (con il suo decisivo romanzo Berlin Alexanderplatz), Stefan Zweig, Benn, Tucholsky, Ossietzsky, Rezzori e soprattutto Roth, Hessel e Benjamin (presentati nella prima parte e nelle Appendici). In verità non di solo «turismo intellettuale» si tratta, dato che su Berlino gravitano anche masse di poveri provenienti – a ondate – dalla Russia e dalle regioni orientali, ebrei soprattutto: quegli Ostjuden ritratti in pagine indimenticabili da Joseph Roth e da Franz Kafka, che si assestano nel cosiddetto Scheunenviertel e nel quartiere di Charlottenburg (chiamata non a caso Charlottengrad) e che permangono sullo sfondo con la loro presenza perturbante.
Ciò che colpisce, nell’insieme, è il riscontro di stati d’animo perlopiù ambivalenti verso la città. Di Berlino gli sguardi dei visitatori amplificano certamente i grandi scenari e le peculiarità che fanno convergere su di essa: la modernità della tecnica, l’efficienza dei trasporti, l’industrialismo, il lusso e l’eleganza dei negozi e delle vetrine, le grandi arterie stradali, il livello della vita culturale, il brivido della libertà assoluta, il cinematografo, il ballo, la bohème, i locali notturni… Ma a molti di loro non sfugge neppure una Berlino meno vitale e più lugubre, che conosce lo sfruttamento professionale e sessuale, una città incubo, con interi quartieri dominati da casermoni, una Berlino che l’alsaziano Yvan Goll definisce «città di glaciale follia», «Sodoma sulla Sprea», mentre il romanziere russo Andrej Belyi – nei primi anni venti – ha l’impressione che i berlinesi conducano una «vita di ombre», votata al disfacimento. Dal canto suo il nostro Pirandello (la cui ‘pièce’ Come tu mi vuoi ha per protagonista una donna integrata nella vita berlinese ma affetta da una ‘doppia personalità’) non ha dubbi che la vita metropolitana comporta una spersonalizzazione. Qualche anno più tardi, subito dopo l’incendio del Reichstag utilizzato dal Partito nazista per emanare leggi speciali, Georges Simenon annoterà che ormai milioni di tedeschi non si stupivano più di nulla: «Hanno l’impressione che ormai sia tutto passato, che essi abbiano ritrovato il loro equilibrio e finalmente uno scopo nella propria vita».
I «turisti intellettuali» evocati in Berlino città d’altri non sempre sono tali: alcuni sono, piuttosto, autentici viaggiatori e reporter (come ad esempio Joseph Roth); altri sono intellettuali in fuga dal provincialismo, che vanno «Giù al Nord» (secondo il titolo del film francese ripreso nella sezione «Taccuino italo-francese») e che da una ‘provincia’ derelitta si ritrovano proiettati – come in particolare i nostri Alvaro e Rosso di San Secondo – nel dinamismo strepitoso di una Berlino che li incanta e li strania con la modernizzazione, con le nuove tecnologie, con le nuove figure professionali (specialmente femminili), con i grandi magazzini in stile americano, con i nuovi ruoli della donna (un’emancipazione che, da siciliani o da calabresi, essi non si sentono di accettare), mentre altri (come il poeta Auden e l’americano Thomas Wolfe, o come il giovane Crevel) rincorrono «una mecca del piacere» che si esprime ad esempio nei copiosi caffè per omosessuali e nei cabaret notturni.
Tra i fili conduttori della riflessione di Luigi Forte si segnala in particolare l’attenzione per il grado di sensibilità alla situazione sociale di cui gli intellettuali in visita di turno dànno prova. Spesso infatti affiora in loro una sottovalutazione dei pericoli che incombono sulla metropoli: l’uniformazione e la spersonalizzazione degli individui, il senso di precarietà, lo spettro della dittatura e il razzismo. Anche in tal senso gli sguardi di osservatori giunti di lontano, magnetizzati dalla metropoli guglielmina, si rivelano preziosi. Merita infine sottolineare che tale riflessione è sorretta da una convinzione di fondo: che nel periodo weimariano la cultura abbia avuto una centralità tale da renderla un elemento decisivo rispetto alla vita sociale e alle sue (talora superficiali) fantasmagorie. Essa ha tentato di farsi propositiva, portatrice di cambiamento; ha mosso i suoi passi verso un «altrove» (con movimenti artistici come l’Espressionismo e la «Neue Sachlichkeit»). È stata cioè una cultura non rassegnata, una cultura d’innovazione, una cultura che ha tentato di rinnovare la Germania come mai avvenuto in passato. In questo senso la Berlino degli anni weimariani – come si afferma ad apertura del volume – «è viva non solo come laboratorio di futuro, ma anche come sito archeologico della modernità e delle sue tragedie».