Terminato il lockdown ed in piena fase 2, sono tornati a galla tutti i nodi irrisolti legati al futuro del gruppo ex Ilva. Complice la pandemia globale che ha affossato i settori nevralgici in cui operano i maggiori clienti della siderurgia, il mercato dell’acciaio è colato a picco. Trascinando con se le vertenze più complesse, a cominciare da quella dell’ex gruppo Ilva, in crisi perenne dall’estate 2012, quando il gruppo Riva lasciò il controllo della società, travolta dall’inchiesta della procura di Taranto per presunto disastro ambientale.

ArcelorMittal, la multinazionale anglo-indiana che dal 1 novembre 2018 ha preso in affitto la gestione del gruppo, non è riuscita a risollevare la situazione economica di un’azienda in costante perdita. Come non bastasse, il conflitto innescato dal governo Conte 1, sia con l’abolizione dell’esimente penale nella gestione degli impianti dell’area a caldo del siderurgico di Taranto attualmente sotto sequestro, sia con la richiesta di rivedere il Piano Ambientale (entrambe clausole che nel contratto siglato prevedevano il disimpegno senza conseguenze del gruppo Mittal), ha posto le basi per lo scontro politico-giudiziario dello scorso autunno, conclusosi con l’accordo dello scorso 4 marzo. Che ha sì evitato un sanguinoso conflitto legale, ma che ha soltanto finito per rinviare la soluzione definitiva della vertenza.

Beffa del destino, pochi giorni dopo il lockdown congelava una trattativa che secondo l’intesa del 4 marzo, prevedeva che azienda e sindacati raggiungessero entro il 31 maggio un nuovo accordo occupazionale.

Ed invece l’azienda, complice la crisi causata dalla pandemia del Covid-19, ha fermato una serie di impianti sia dell’area a caldo che dell’area a freddo del siderurgico tarantino, provocando un utilizzo massiccio della cassa integrazione, esteso a tutto il personale. Basti pensare che ad oggi nel sito di Taranto sono al lavoro quotidianamente appena 2mila lavoratori sugli 8.200 diretti.

E che la produzione ha toccato il così detto «minimo tecnico», pari ad appena 7mila tonnellate di ghisa giornaliere, rispetto alle 12-13mila di qualche mese fa e rispetto alle 17mila classiche. La situazione è definitivamente esplosa nelle ultime 48 ore, dopo che l’azienda ha informato i sindacati che la prevista ripartenza annunciata giorni addietro di alcuni impianti dell’area a freddo di Taranto, era sospesa a causa della richiesta di alcuni clienti di rallentare la consegna degli ordini.

E così i quasi 700 lavoratori pronti a rientrare dalla cig resteranno a casa. Ma non saranno i soli: altri 300 lavoratori sono stati rimessi in cig tra Genova e Novi Ligure. A Novi l’azienda ferma gli impianti per mancanza spedizioni a soli tre giorni di distanza dall’annunciata partenza della elettrozincatura, che resterà ferma. A Genova mentre si stava ipotizzando la ripartenza delle due zincature, è stata fermata la banda zincata. A Salerno tutta la produzione è ferma dal 23 marzo per emergenza Covid-19.

E la scorsa notte sono partite lettere telematiche di avviso di cig per altri mille lavoratori, molti dei quali non avendo fatto in tempo a leggere la comunicazione dell’azienda, si sono recati lo stesso a lavoro per il primo turno, trovando i badge bloccati. Iniziativa provocatoria dell’azienda, che ha fatto andare su tutte le furie i sindacati metalmeccanici, che sono tornati a chiedere con forza che il governo, alquanto latitante, riprenda in mano il dossier. Il fattore tempo è infatti a tutto vantaggio di ArcelorMittal, che senza accordi a novembre può lasciare l’Italia pagando una penale di appena 500 milioni.