Tarsie usciva nel 1942: in piena guerra e in un periodo nero per l’editoria italiana. Il volume era uno dei primi «Quaderni d’arte», una collana «popolare» che l’editore Calogero Tumminelli aveva affidato alle cure di Emilio Cecchi. I «Quaderni» dovevano avere un taglio moderno, buone riproduzioni fotografiche, intelligenza negli apparati critici; la scelta dei temi e dei curatori era, ovviamente, centrale.
Il progetto era ambizioso. Coinvolgeva molti storici dell’arte, tra cui diversi giovani, e programmava sei uscite annue; a frenarlo, oltre ai bombardamenti, furono la morte di Tumminelli e una concorrenza sempre più preparata – i «Quaderni», dati alle stampe fino al 1946, furono solamente dodici.
Per il volume sulle tarsie Cecchi aveva pensato ad Anna Banti, moglie di Roberto Longhi: lei rifiutò. Si sentiva «disarmata per quegli studi», e aveva già troppo in cantiere. Rilanciò su uno degli allievi più brillanti del marito, Francesco Arcangeli. Sembrò subito perfetto: l’argomento, già affrontato da Cecchi in un articolo sul coro della cattedrale di Todi nel 1941, doveva essere sostenuto da una voce giovane, che si approcciava a quel materiale in un modo nuovo.
Occupandosi di tarsie lignee rinascimentali il giovane Arcangeli doveva affrontare un antico e radicato atteggiamento mentale. La realizzazione lignaria si portava infatti appresso il fardello della subalternità alla pittura, persino tra le righe di Roberto Longhi. Per chi aveva studiato l’argomento, più delle realizzazioni finali, contavano i modelli preparatori – tutti perduti – disegnati dai pittori. Un preconcetto che risaliva a Vasari, difficile da scardinare. Ci si era provato Emilio Cecchi, ma il colpo definitivo lo diede proprio Arcangeli in Tarsie.
Inoltre, della capacità fabbrile dei maestri di tarsia, cara al mondo delle scuole d’arte a cui Tumminelli avrebbe voluto destinare il libro, al ventisettenne bolognese doveva importare poco. Come poco importava, a lui e a Cecchi, di pensare alla tarsia in un sistema integrato di struttura e decorazione: c’era da trovare un equilibrio tra una visione ancora ottocentesca, che relegava la tarsia a un fatto d’artigianato, e certo idealismo crociano. In questo senso il problema delle tarsie si legava a quello delle riproduzioni fotografiche delle opere d’arte: immagini leggibili, nuove e inaspettate, montate intelligentemente, sarebbero state il corollario giusto al testo. Immagini che, nel Quaderno, avrebbero dovuto rappresentare non cori o interi apparati, ma singole specchiature. Come se le tarsie fossero, prese una a una, pitture da cavalletto. Era già, di per sé, un’indicazione critica. E il reperimento del materiale fotografico fu uno degli impicci maggiori per Arcangeli.
Il volumetto fu il primo vero impegno saggistico per lo storico dell’arte, che in quegli anni continuava a mescolare passioni letterarie e critica militante. Longhi vigilò sul lavoro, che venne concluso in poco più di tre mesi. Ripubblicato ora in anastatica dalle Edizioni della Normale (euro 25,00), Tarsie svela molto di quel momento. Grazie, soprattutto, a una postfazione scritta da Massimo Ferretti che ricostruisce con un montaggio persuasivo, con flashback e scatti in avanti, la formazione del libro. Al centro della riflessione di Ferretti sono gli scambi epistolari tra i protagonisti di quella vicenda: le lettere calano nella sala macchine non solo del Quaderno di Arcangeli, ma di una stagione intera della cultura italiana.
Tra le altre cose, l’insistenza di Longhi sulla chiarezza: la «zavorra filologica», che era pure uno dei risultati del pensiero critico longhiano, andava ridotta al minimo per agevolare la lettura al «grande pubblico». Una sensibilità divulgativa che raggiungerà l’apice vent’anni dopo, nei «Maestri del Colore» dei Fratelli Fabbri.
Ferretti, che di Arcangeli fu allievo, nella postfazione a Tarsie apre uno squarcio importante per ricostruire il pensiero e la storia formativa del proprio maestro. Una formazione sulla quale pesò molto il rapporto con Longhi, tanto fondamentale quanto visceralmente profondo. Arcangeli lo confessò in una bellissima lettera a Cecchi nel gennaio 1942: «in certi giorni vien voglia di lavorare e lavorare quasi con la speranza di potermi tutto “trasferire in lui”».
Era così anche per i compagni di studio più vicini, tra cui Alberto Graziani, il geniale, precocissimo, scolaro di Longhi scomparso nel 1943 a ventisette anni. Graziani aveva già pubblicato alcuni contributi magistrali, mentre Arcangeli aveva seguito la sua vocazione letteraria e si stava spendendo, negli stessi mesi tra ’41 e ’42, come critico militante. Tarsie poteva colmare un poco le distanze, ma fu una fatica improba, un lavoro fatto in poche settimane e tutto, o quasi, subordinato ai materiali fotografici. Anzi, tanto più impegnativo proprio perché non aveva offerto la possibilità di un rapporto diretto con le opere. Lo dice bene Ferretti, quella di Arcangeli è «una conoscenza storico-critica che matura attraverso la frequentazione replicata, continua, interrelata a quanto entra in una più profonda memoria, dov’è il presente vissuto a dare il senso del luogo storico». Bologna è la città in cui convergono vissuto e maturazione intellettuale; una città rivitalizzata da presenze che lasceranno il segno per tutta l’esistenza: certo Longhi, poi Giorgio Morandi, ma anche legami non esperienziali, ma mentali, con alcuni oggetti. Come i quadri di Ludovico Carracci, uno dei pittori prediletti, nonché uno dei grandi artisti della sua città.
Sembra quindi naturale che Arcangeli non più giovane, già professore all’Università di Bologna, relegasse i il ricordo di Tarsie tra le esperienze occasionali e, apparentemente, poco care. Eppure, malgrado le difficoltà affrontate, il libro riesce a ridefinire un tema storico con intensità e intelligenza, senza cadere in quello che sarebbe stato un gioco facile, soprattutto in quegli anni, cioè «abbandonarsi al fascino capzioso di un’interpretazione “metafisica”». Un paragone, quello tra le tarsie e la pittura metafisica, che aveva proposto Cecchi. Non era di per sé assurdo, ma ad Arcangeli non tornava. La prospettiva e la sintassi rinascimentale erano una cosa diversa dagli esercizi di de Chirico o dagli edifici di Marcello Piacentini, e il rapporto tra passato e presente andava se mai invertito e mantenuto nel suo spessore, senza gli appiattimenti retorici che giustificavano quel processo di sintesi e isolamento idolatrico delle forme che aveva originato, per esempio, via della Conciliazione.
Nel libro, il momento più alto nella storia dell’arte dell’intaglio è associato, per la prima volta in modo così chiaro, alla pratica prospettica: il «trionfo solenne e semplicissimo della prospettiva» si tocca nelle specchiature del coro del duomo di Modena lavorato dai fratelli Canozi da Lendinara. Nell’aggregazione dei legni del duomo emiliano si concretizza infatti la nozione matematica del disegno suggerita dalle ricerche di Piero della Francesca e Leon Battista Alberti. L’evidenza della materia non è smentita, ma utilizzata in chiave espressiva, calcolata sulle possibilità delle essenze lignee. E i modelli per queste tarsie non sono disegnati da Piero, come credevano Longhi e Arcangeli, ma da Cristoforo Canozi stesso, in totale autonomia.
Da Tarsie in poi gli studi non potevano che riflettere su questi legami tra ricerca (Alberti, Piero, Brunelleschi) e applicazione tecnica: le tarsie prospettiche sono oggi considerate, per citare Ferretti, «il segmento di una catena che si situa spesso ai più alti livelli tecnologici del tempo». Ma, al di là delle considerazioni di Arcangeli sull’argomento, ancora oggi insostituibili, Tarsie diventa, grazie soprattutto alla nota finale di Ferretti, uno dei testi chiave per comprendere più a fondo la cultura e la società di una nazione che stava affrontando uno dei momenti più drammatici della propria storia.