A proposito del «singolare itinerario di Arcangeli», Ezio Raimondi fece un’osservazione che potrà sembrare paradossale: la sua «giovinezza vera si colloca per convinzione, per maturità, per forza concettuale e sensibile, alla fine e non al principio della sua avventura critica». L’osservazione gravita chiaramente sul momento in cui Francesco Arcangeli (1915-’74) scriveva il saggio introduttivo alla mostra Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana, nel 1970, e Lo spazio romantico, di due anni dopo. In entrambe le occasioni metteva a frutto (in gioco, soprattutto) l’intero suo itinerario, inscindibilmente critico ed esistenziale. Nella prima riattraversava in modo alternativo gli svolgimenti artistici nella regione in cui affondavano le sue radici; nell’altra vedeva l’avvio, in una dimensione europea non più centrata su Parigi, di quanto sarebbe riemerso con l’Informale. Passato e presente: due crinali uniti. Non c’era separazione, in lui, fra critico militante e storico dell’arte.
Quei due saggi furono come il precipitato chimico del lavoro didattico che lo aveva profondamente impegnato di recente. Quando cominciò il suo insegnamento universitario – e fu direttamente nella sua città: Bologna, dove era stato allievo di Roberto Longhi – aveva ormai passato i cinquant’anni. Nei pochi anni di vita che gli restarono in sorte organizzò i suoi corsi monografici in grandi cicli, come se la nuova esperienza gli imponesse di fare un bilancio in prima persona, richiesto dal ricambio generazionale che si affacciava in aula. Le dispense del 1970-’71 (Dal Romanticismo all’Informale: lo stesso titolo con cui Einaudi raccoglierà i suoi saggi), furono stampate poco dopo la sua scomparsa dalle vecchie Edizioni Alfa.
Le lezioni del primo ciclo compaiono ora a cura di Vanessa Pietrantonio, con prefazione di Vera Fortunati. Ne conservano il titolo: Corpo, azione, sentimento, fantasia Naturalismo ed espressionismo nella tradizione artistica emiliano-bolognese. Lezioni 1967-1970, il Mulino, 2 voll., pp. 333+269, ill. 164+179, euro 48,00), mentre il testo, accompagnato da note e da un apparato illustrativo che di fatto corrisponde alle diapositive proiettate, è stato ripulito solo delle ripetizioni di minor conto (peccato, ci sono diversi errori di stampa). Le altre, le più corpose, sono state mantenute. Per quanto il «corso» corrispondesse ad un segmento della traiettoria lunghissima, gli studenti di ogni anno dovevano essere consapevoli del significato complessivo di quella lettura storica, fondata su condizioni primarie: costanti ma non identiche, rivissute nello stesso luogo, che ne aveva trasmesso memoria. Niente di metastorico.
Dell’esistenza di questi corsi, sotto il titolo comune dato «quasi d’impulso», Arcangeli parlò in apertura di Natura ed espressione, la mostra che ebbe gli stessi protagonisti delle dispense: Wiligelmo, Vitale, Aspertini, Ludovico Carracci, Crespi, Morandi (oltre ai trecenteschi Jacopino e Andrea de’ Bartoli). Ne parlò dicendo che lì avrebbe cercato «di rendere più organico il complesso di idee e di ricerche» svolto in aula. L’indicazione non va presa alla lettera: in quel saggio non c’è tutto il succo delle lezioni. Quel succo sta nella misura propria della lezione. Chi si trovò a seguire i corsi successivi e andò presto a leggere queste dispense ciclostilate, dopo aver visto la mostra del 1970, fece presto ad accorgersi che non andavano considerate come qualcosa di semplicemente preparatorio. Arcangeli confidava di avere sufficientemente organizzato le sue idee quando inviò il primo fascicolo di dispense ad Ennio Morlotti («il tuo corso mi ha commosso, come ai bei tempi»), che tuttavia gli rispose («naturalmente per ora») di sentire il più vero proseguimento di Vitale non a Bologna, ma in Lombardia. E si era impegnato con Giulio Bollati per farne un libro, dei tre corsi: segno che credeva alla loro particolare tessitura (chissà se negli archivi Einaudi ce n’è traccia: sarebbe naturale che la proposta fosse nata dalla mostra; rileggendole, si ha l’impressione che le dispense dell’ultimo anno siano più definite: si era già aperto lo sbocco a stampa?).
Resta il fatto che il «parlato» di Arcangeli sembrava a tutti noi studenti incredibilmente compiuto: non c’era aggettivo o avverbio che non combaciasse in modo perfetto con l’opera sullo schermo. Mentre faceva lezione Arcangeli non stava mai seduto, con libri e scaletta sulla cattedra. Restava in piedi, fermo e di lato, alla distanza necessaria per guardare anche lui le opere proiettate, come fossero la buca del suggeritore. E a fine anno lo stampo di quei discorsi si ritrovava praticamente intatto nelle pagine ciclostilate. In aula non c’era un registratore; e comunque, di quello che esponeva, non poteva aver scritto più che una traccia attenta (c’erano pochissime correzioni anche sulle prove che capitò di vedere in seguito). Ma proprio questa meditata esattezza del «parlato» fa intendere come per lui quella fosse una particolare forma di discorso critico, la più diretta.
Non so se esista una ricapitolazione, a largo raggio e comparata, sul «corso universitario» come genere saggistico. Non intendo i soli casi d’insegnamento «socratico», per così dire, messi in salvo da trascrizioni affidabili. Interessano soprattutto quelli improntati sulla lettura dei testi, una lettura che si fa forma critica speciale. È il caso di Chabod, anche, e naturalmente di Debenedetti. È naturale che per Arcangeli il riferimento fosse quello dei corsi di Longhi, soprattutto i primi, che aveva seguito da studente: i più sorvegliati nella trascrizione (del resto, aveva pensato di farne un libro). Ma la sovrapposizione non è totale. In Longhi la successione delle diapositive scandisce l’asse del discorso; il «parlato» si fa più piano, è tutto al servizio del «visivo», lo sollecita anche descrittivamente. Nel «parlato» di Arcangeli la presenza dello schermo entra in modo altrettanto saldo, ma un po’ meno esclusivo. Il discorso resta rivolto a chi deve essere istruito all’uso delle espressioni figurative (è lo specifico scopo didattico), ma senza far credere che la storia dell’arte si possa identificare per intero con la storia delle forme. È il nodo stesso che si stringe in un punto cruciale del Giorgio Morandi («ma le opere non sono reliquiari di poesia o di stile», ecc.); è quanto resta personalmente sigillato nel ricordo di quella volta che in aula si mise a spiegare, con un’insolita divagazione di metodo, che chi si occupa di storia dell’arte non può non essere «purovibilista», precisando però che non deve restare semplicemente tale.
Il suo modo di guardare non restava imbrigliato in ‘categorie’. Anche nella forma parlata trovava immagini immediate come quella spesa per il canonico confronto manualistico fra lo Sposalizio della Vergine di Raffaello e il tempietto di San Pietro in Montorio, «cinto com’è da quella gradinata mirabilmente concentrica». Arcangeli lo concludeva invitando i suoi allievi a pensare a «quando si butta il sasso nell’acqua calma, e si generano onde che si slargano con assoluta perfezione sferica». Emergeva così tutta la pratica fatta insegnando per anni al liceo. Ma questo modo di rendere l’essenza del classicismo cinquecentesco ci deve ricordare che, per quanto le sue predilezioni si rivolgessero agli uomini «di crisi» (Aspertini, in questo caso), la sua intelligenza dei fatti figurativi sapeva mettere altrettanto bene a fuoco opere e figure del polo antagonista. Solo se un’intera epoca, come quella da lui vissuta, si configurava sotto il segno della «crisi», entrava in sospetto verso i «superuomini»: Picasso, ma anche lo stesso Longhi.
Queste dispense non possono essere lette soltanto in vista del saggio Natura ed espressione perché qui è continuamente aperto il dialogo con il destinatario giovanile. Vi filtra inevitabilmente anche il clima del Sessantotto, riverberandosi sulla difesa delle funzioni del corso o sulle riserve in merito a certe forme di specialismo accademico. È a questo punto, nel doppio fronte d’indipendenza – istituzione universitaria e movimento studentesco – che caratterizza l’anarchico Arcangeli, che meglio funziona il paradosso di una vitalità giovanile esplosa a fine vita.
Non c’è la possibilità di dire meglio perché in queste dispense si troveranno anche cose che trovano spazio o misura adeguata nel saggio del 1970. L’analisi monografica, ma per tagli tematici, del percorso di Ludovico Carracci non è sostituibile né con i profili scritti per le mostre del 1957 e 1970, né con il più mirato saggio del 1956 Sugli inizi dei Carracci, credo il punto più alto toccato da Arcangeli anche nel campo della filologia figurativa. Avrebbe anche potuto essere stampato in una plaquette a sé il profilo, dipanato secondo l’ordine del tempo, di Giuseppe Maria Crespi (un altro di quei personaggi che appaiono di rango altissimo quando si «scelgono» le opere con criterio, mentre rischia di soccombere sotto l’inerte conta del «catalogo completo»).
Sono forse le pagine su Wiligelmo e sull’arte del Medioevo che più fanno rimpiangere il loro tardivo riaffioramento a stampa. Quando Arcangeli faceva lezione, fuori d’Italia non era sempre ben riconosciuta la statura dell’artista. Grandezza o meno, l’intero romanico padano rischiava di passare come un aspetto periferico di quell’unità figurativa occidentale che era stata stabilita un po’ troppo a tavolino. Oggi, nella vivace (quanto discutibile) revisione del modello storiografico del Romanico fatta da Xavier Barral i Altet, sembra naturale che lo scultore del duomo di Modena abbia un ruolo non secondario neppure di fronte ai grandi visionari di Francia. Sarà però più probabile che il lettore di queste dispense, come quello di Natura ed espressione, sia maggiormente colpito dall’accostamento di Wiligelmo allo sfogo di poetica di Willem de Kooning («Questo spazio della scienza – lo spazio dei fisici – ne sono davvero annoiato…»). La lettura dello scultore antico è centrata infatti sul corpo fisico, sull’istinto gestuale, sulla vitalità organica. Arcangeli proiettava il presente sul passato? È un sospetto che non si è nascosto neppure chi gli riconosce vera grandezza critica. Ma il sarcasmo longhiano contro le riscoperte superficiali dei «pappagalli del Surrealismo» lo avevano vaccinato per sempre; e soprattutto la sua etica intellettuale, al limite dell’autodistruzione, era l’opposto di ogni accostamento brillante all’arte dei suoi giorni. Piuttosto, in quella lettura che oppose Wiligelmo al mondo dei teologi, va riconosciuto il convincimento che la storia dell’arte non fosse riducibile in toto alla storia della cultura, ossia che le opere d’arte testimoniassero forme di vita che non erano passate e che non potevano passare attraverso altri canali. In questo senso Arcangeli è oggi «inattuale» (ma si aprirebbe tutt’altro discorso). In maniera ingenua e sbrigativa, posso però confessare di aver pensato a quell’intreccio di vita animale e vegetale delle lastre modenesi, così come le illustrò Arcangeli, leggendo certe pagine di Terra e società nell’Italia padana di Vito Fumagalli?
Arcangeli non proiettava il presente sul passato in modo intellettualistico perché l’uno e l’altro avevano radicamento negli stessi luoghi. Si servì, per dare ragione del filo che si svolge da Wiligelmo fino a Morandi, del termine «tramando»: voleva suggerire un legame che non è di natura stilistica, che non ha i tratti consapevoli, deliberatamente allusivi del revival. Nasce invece, con diverse formulazione di stile e di dialettica culturale, dal contatto con certe costanti primarie, facilmente rimosse dalle forze egemoni; è la memoria profonda che si fa luogo. Nel 1970, per scritto ed ancor più a voce, quel concetto fu assai discusso. Nelle dispense riemerge in più punti, con flessioni diversamente sfumate, meno segnata da intenti di definizione. In quell’idea si rifletteva anche la concreta realtà di un paesaggio, urbano e non, anch’esso frutto del «ricambio fra uomo e natura», ormai in via di radicale trasformazione. Di quella trasformazione distruttiva Arcangeli si faceva a suo modo testimone, da critico e storico dell’arte. Un po’ come l’amico Attilio Bertolucci, da poeta.