Nonostante il tratto evidente dello stile, che ha formato nei suoi lettori l’idea – del resto da lui stesso promossa – di un nipotino di Gadda, Arbasino è stato per gran parte della sua opera e per il suo intero sentimento delle cose anche uno scrittore civile, che ha osservato come pochi le trasformazioni del nostro Novecento negli ambiti più diversi: lingua, politica, mode culturali. E ha tramandato queste osservazioni in una sorta di conversazione ininterrotta, che si presentava distesamente in romanzi e racconti e in maniera variamente frammentaria negli articoli su quotidiani e settimanali.
Il simbolo per eccellenza di questa conversazione, articolata nei registri più diversi è Fratelli d’Italia, il romanzo che è, insieme a L’anonimo lombardo, la sua sigla di scrittore (nell’Anonimo, le note al racconto sono anche il suo modo di fare i conti con la tradizione letteraria italiana, che conosceva attentamente: un fatto troppo spesso trascurato).

ALLA SUA PRIMA USCITA, Fratelli d’Italia fu per questo anche uno scandalo, qualcosa di diverso da un romanzo, qualcosa che toccava il costume profondo dell’Italia che aveva appena consumato il suo boom. Molti si riconobbero nei personaggi trattati come deve farlo un romanziere. E vi si lesse forse qualcosa di diverso da quanto poi gli anni – e le successive redazioni, con ampliamenti, dell’opera – avrebbero insegnato a riconoscere. Quei personaggi messi lì a parlare come se ci si trovasse in un’ininterrotta scia di eventi tutti parimenti degni di essere osservati commentati e giudicati rappresentavano se stessi come figure, come il ricalco di momenti da tramandare perché fortemente sintomatici e còlti «al momento giusto».
Lì si vedeva quell’idea di coltivare memorie così tipica dell’ultimo periodo dello scrittore, che tornava su vecchi reportage e ne traeva, con le solite sue aggiunte – in modo che andasse perduto solo il minimo, l’inevitabile corroso dal tempo –, ritratti di scorcio o a figura intera di quelli che per lui erano stati i protagonisti del momento in cui gli era capitato di vivere: i suoi ultimi libri, Ritratti italiani e Ritratti e immagini, sono le testimonianze di un protagonista.
Uno dei frammenti conclusivi di Fratelli d’Italia del 1963 era una vera e propria dichiarazione di intenti: «La tentazione di ’catturare il presente’, così come da Proust in poi da decine d’anni si tenta di ’recuperare il passato’. I ricordi d’infanzia (ridicoli per definizione) si dànno per bruciati per sempre. C’è poco da fare gli spiritosi: le evocazioni di adolescenze, poetiche o no, fanno piangere e basta. Se mai questi ricordi, accuratamente nascosti, nutriranno segretamente le radici di un’opera basata nel presente». Il progetto di un’opera, dunque, compresa l’idea del modello Proust, amato soprattutto per come aveva strutturato il flusso delle cose, per la struttura della cattedrale della memoria.

L’idea della «cassetta degli attrezzi», come la chiamava, identifica di Arbasino un’altra idea portante: l’arte nasce come alto esercizio, come sommo artigianato del quale possono essere ricostruiti i passaggi successivi – veri e propri manufatti – da utilizzare o in senso proprio o secondo un riuso in soggettiva. L’arte nasce come bricolage di alta scuola. Aveva scritto: «… Aprirsi a tutte le direzioni, spalancarsi a ogni possibilità, proliferando selvaggiamente, procedendo per accumulo, disporsi a tutti i significati probabili, senza chiudersi nessuna strada, inglobando i materiali più eterogenei… il journal, i bloc-notes, i quaderni, le cartoline, i pacchetti di sigarette con dietro segnato un appunto… divorando quintali di madeleines»; e anche: «mimare una realtà senza ‘capo’ né ‘coda’ accettando metafore da ogni estremo della rosa dei venti…» (ancora dai frammenti finali di Fratelli 1963).

LA SUA VICENDA complessiva come romanziere e autore di racconti po’ essere racchiusa in un arco di tempo relativamente breve se si tiene conto della prima comparsa dei suoi titoli: ognuno con una sua forma diversa, una sua intenzione sperimentale, una voglia di confrontarsi con forme nuove e non praticate fino a quel momento. E si tratta così dei racconti del paesaggio italiano del secondo dopoguerra con le Piccole vacanze; del romanzo epistolare fitto di note a piè pagina in dialogo con la tradizione cólta dell’Anonimo lombardo; del romanzo-conversazione incentrato sui climi culturali di Fratelli d’Italia (con le aggiunte teorizzanti di Certi romanzi); la piccola epopea dallo sviluppo ordinario e quotidiano dell’Italia del «miracolo economico» che è La bella di Lodi; la diceria mimetico-linguistica della Narcisata; il romanzo storico rivisitato in chiave satirico-grottesca di Super-Eliogabalo, l’imperatore alla fine della decadenza; i micro-meta-romanzi che sono Il principe costante e Specchio delle mie brame; il musical ironico di Amate sponde!; il frammento arrivato, dopo tanto tempo, come ampliamento a un titolo precedente: ed è l’allegretto-adagio di La condizione del dolore aggiunto nel corpo grande dell’ultimo Fratelli d’Italia.

POI UNA SERIE di riscritture: varianti soprattutto per aggiornare i tic linguistici, che sono l’elemento costitutivo del paesaggio. Aggiornare il proprio «diario», scorrente di libro in libro e libro dopo libro, ai contesti che mutano. Così la sua opera narrativa è diventata una memoria culturale del secondo Novecento, una particolare forma di storia e di critica dei fatti. Un frammento del Finale di Fratelli d’Italia afferma: «Qualunque libro veramente andrebbe scritto in un anno, non di più, anche se lo si è pensato per tutta la vita (anzi: tanto di più)? E naturalmente ogni volta che lo si ripassa diventerà un’altra cosa. Non esiste una Struttura Definitiva: è un’illusione pericolosa, tombale; e anche saccente. Sono tante, le stesure probabili… Bisognerà staccarsene in tempo, rinnegando il perfezionismo maniacale, prima di perdere un certo charme del non finito che deriva ancora dalla corsa à bâtons rompus».
Dal 1957 delle Piccole vacanze al 1974 di Specchio delle mie brame non corrono neanche venti anni. Le date delle ultime versioni (a partire dagli aggiornamenti più antichi: l’uscita nel 1966 dell’Anonimo, che già ritoccava Le piccole vacanze; e la stesura già rivista nel 1967 di Fratelli d’Italia) dilatano il tempo, concludendosi con l’aggiunta più vistosa a Fratelli d’Italia nel 1993, un vero e proprio libro aggiunto al libro, come si è detto, La condizione del dolore è anche un diapason per intonare a ritroso l’opera intera.
Arbasino dai suoi ventisette ai suoi quarantun anni, da Le piccole vacanze a Sessanta posizioni, resta la base di tutto, ma l’attenzione al confronto tra le varie stesure ed edizioni che sono venute in seguito non è un mero esercizio tecnico sugli scartafacci: i libri dei quali si parla hanno avuto una loro storia pubblica, sono tutti usciti a stampa, hanno procurato discussioni anche accanite, hanno avuto ricezioni controverse – oscillanti dal rifiuto ideologico e moralistico incurante della risoluzione formale all’adesione entusiastica, anche di culto – e infine fortuna costante: assestandosi, nel loro insieme, come uno dei punti di maggior visibilità e consistenza della seconda metà del Novecento.

MA DETTO DEI SUOI ROMANZI manca troppo altro: il giornalismo culturale e la critica della cultura; il teatro e l’opera; i musei e le mostre in ogni parte del pianeta. Mancano tutte le passioni di una vita intera che non si potrebbero racchiudere in nessun ricordo, per quanto esteso. Basta andare a vedere la Cronologia del suo «Meridiano» per averne qualche idea. E anche lì è poco più di una traccia, poco più che il riflesso di una passione-critica – se si può dire – per ogni cosa della vita. Mentre se ne andavano gli amici, le epoche e le possibilità di conversazione, aveva scritto: «Ma cosa mi resta, adesso? Parecchi ultimi ricordi molto tristi, e che mi piacciono pochissimo: avevo degli amici, quegli amici sono diventati delle edizioni complete, dei centri di studi, dei comitati, dei convegni, e io mi sento molto solo». Ora se ne è andato anche lui. Ci mancherà.