Chi scrive, beninteso, non è andato al festival antidemocratico di Venezia. Dubita fortemente di essere mai tentato da altri, sia pur democratici, festival. Inoltre non capisce niente di cinema, ed è incline a provare al signor Kubrick il temperamento d’un conferenziere piuttosto che d’un regista. Ma, essendosi imbattuto nell’Arancia meccanica in altri lidi, ha trovato stavolta la sua conferenza di grande interesse. Un perfetto de profundis di quella vena di ottimismo, che è stato l’ultimo, e ormai spento, sprazzo degli anni ruggenti del capitale.
Il Corriere della Sera, non s’è sbagliato nel reagire con irritazione. Perché il guaio di questo meccanico agrume, è che dimostra non solo come la nostra civiltà attuale produca violenza, ne sia disgregata, ma come non possa produrre anticorpi alla violenza. Alla distruzione non sa opporre che la distruzione del distruttore. E se non ci riesce, la sua sublimazione in norma, componente organica del potere. Peggio, perfino chi ne è vittima, l’intellettuale privilegiato come il piccolo borghese tutto casa e famiglia, ne mutuano la legge — carogne essi stessi e produttori di carogne.

Peggio, la cultura, e non solo quella di oggi, ma di ieri e ier l’altro, funge benissimo da accompagnamento sonoro a questa violenza, da Beethoven alla canzonetta di consumo. Solo innocuo, nell’Arancia, meccanica, un serpente. Come punto d’approdo delle magnifiche sorti e progressive, non c’è male. Il pessimismo dell’economista infelice, e il catastrofismo dell’ecologo, hanno oggi anche il loro film, prefigurando un’umanità forsennatamente in cerca di morte. Così scricchiola il trentennio di pace di un occidente, che le guerre le ha spostate altrove. Non ci interessa soltanto riverificare, in questa sintomatologia, qualcosa che abbiamo da tempo intravvisto e cui, fra poco, solo i PC, ultimi cultori del buono sviluppo, sembrano sordi.

Ci interessa anche – non essendo dei contemplativi – cogliere nella vocazione di violenza, di crisi e di morte del sistema la sua fondamentale fragilità. Quando una civiltà non vende speranza, è perché il suo ciclo è arrivato al termine; la sua carica distruttiva appare al massimo minacciosa e al massimo impotente. Non c’è sistema di dominazione che possa a lungo reggere senza una, credibilità, per illusoria che sia, di espansione e miglioramento, su cui fondare un sia pur mistificato consenso.

Oggi che la nostra civiltà scaraventa fuori da sé, come un corpo inassimilabile, i pilastri ideologici del riformismo, l’idea della perfettibilità, la credibilità in un suo modificabile volto, regala alla rivoluzione una forza, che finora aveva gelosamente conservato e puntualmente riprodotto. A forza di espellere da sé i correttivi riformisti, il sistema si squilibra al punto non solo da accelerare l’alternativa fra «socialismo o barbarie», come mai prima d’ora, ma, come mai prima d’ora, da renderla visibile anche a chi non è profeta.

E il riformismo, impossibilitato a fungere da correttivo alla borghesia imperiale, sarà battuto una seconda volta, dall’impossibilità di dominare un processo alternativo. Né alla sinistra della borghesia né alla destra del proletariato, andrà alla fine del suo duplice ruolo, di ritardatore sia del fascismo sia della rivoluzione, destinato a sparire man mano che, fra i due poli, spazi non ce ne saranno più.

(25 agosto 1972)