Una filiera trasparente e completamente tracciabile, con una bella etichetta “parlante” sul prodotto, così da permettere al consumatore una scelta consapevole: lo chiede la campagna #FilieraSporca, lanciata ieri da un gruppo di associazioni, che hanno presentato a Roma il rapporto #FilieraSporca. Gli invisibili dell’arancia e lo sfruttamento in agricoltura nell’anno di Expo.

Nel mirino degli attivisti di daSud, Terra! Onlus e Terrelibere.org c’è lo sfruttamento del lavoro nelle campagne e nelle fabbriche di trasformazione delle arance, che vede operare tre protagonisti principali: le imprese, dalla multinazionale delle bibite fino alla piccola azienda di raccolta; i caporali; e infine i braccianti, spesso immigrati irregolari tenuti in semi-schiavitù.

Curato dal giornalista Antonello Mangano e realizzato con il sostegno di Open Society Foundations, il dossier #FilieraSporca è un viaggio attraverso gli agrumeti di Catania, in Sicilia, e di Rosarno, in Calabria, che si è proposto di far luce sugli innumerevoli passaggi che – dai grandi commercianti locali alle squadre di raccolta, alle aziende di trasporto, alle multinazionali e alla grande distribuzione organizzata – determinano di fatto la filiera dell’arancia: da quelle rosse dell’Etna esportate in tutto il mondo al biondo calabrese mischiato col succo brasiliano che termina nelle lattine delle multinazionali, fino alle clementine di Sibari portate nei banconi di tutta Italia.

Sono anche stati interpellati alcuni grandi marchi della produzione e distribuzione come Coop, Coca Cola, Conad e Nestlé per chiedere chiarimenti circa l’impegno contro il lavoro nero e la trasparenza nei confronti dei vari passaggi che portano i prodotti dalla campagna agli scaffali dei supermercati. Coca cola ha risposto rendendo pubblica per la prima volta la lista dei propri fornitori italiani, mentre Coop ha descritto i meccanismi messi in atto a livello contrattuale per limitare il rischio di irregolarità tra i suoi sub-fornitori.

«Il cuore della filiera – ha spiegato Mangano – è un ceto di intermediari che accumula ricchezza, organizza le raccolte usando i caporali, determina il prezzo. Impoverisce i piccoli produttori e acquista i loro terreni. Causa la povertà dei migranti e nega un’accoglienza dignitosa».
«Nell’anno di Expo 2015, chiediamo un impegno alle imprese e alle istituzioni attraverso la responsabilità solidale delle aziende, che devono rispondere per quanto avviene anche nei livelli inferiori della filiera», aggiunge il presidente di Terra! Onlus Fabio Ciconte.

Lorenzo Misuraca (daSud) spiega che «si vogliono illuminare le zone d’ombra della filiera in modo che per le aziende e per la politica diventi più conveniente avviare percorsi virtuosi che chiudere gli occhi sulla schiavitù nelle campagne italiane».

Secondo le tre associazioni, dotarsi di una filiera trasparente è necessario non solo per la tutela dei consumatori e la salvaguardia del made in Italy, ma anche per offrire una risposta allo sfruttamento del lavoro.

#FilieraSporca chiede al ministro per le Politiche agricole Maurizio Martina di avviare subito un confronto su tre punti: 1) obbligo di tracciabilità dei fornitori e trasparenza, rendendo pubblico e consultabile l’elenco dei fornitori delle aziende della filiera; 2) obbligo di dotarsi di una etichetta narrante che accompagni il consumatore verso una scelta consapevole sull’origine del prodotto ma anche sui singoli fornitori (quali fornitori, quanti passaggi lungo la filiera); 3) obbligo di dotarsi di misure legislative che prevedano la responsabilità solidale delle aziende committenti.

Il rapporto è scaricabile gratuitamente dal sito filierasporca.org.