E’ altamente probabile che l’ex leader dell’Olp Yasser Arafat, morto per una misteriosa malattia nel 2004, sia stato avvelenato. La notizia diffusa ieri da al Jazeera – che ha ottenuto in esclusiva il rapporto di 108 pagine redatto da specialisti svizzeri dell’università di Losanna sul corpo riesumato di Arafat – si è abbattuta come un macigno sulle già tese relazioni israelo-palestinesi. E se trovasse ulteriori conferme in analoghe  indagini che stanno svolgendo in Russia e Francia, potrebbe suscitare un’ondata di sdegno nei Territori occupati e, forse, diventare la scintilla di una nuova sollevazione palestinese contro l’occupazione. I governi israeliani che si sono succeduti dal 2004 a oggi hanno negato qualsiasi coinvolgimento. Tuttavia un accertamento definitivo della morte per avvelenamento darebbe ai palestinesi – all’uomo della strada e alla leadership dell’Autorità nazionale (Anp) di Abu Mazen – la conferma di un ruolo svolto nella vicenda da Ariel Sharon che era premier di Israele nel 2004. Con conseguenze imprevedibili sul terreno.

Sharon era un nemico storico di Yasser Arafat e aveva tentato di eliminarlo nel 1982 a Beirut, durante l’invasione israeliana del Libano. Poi, dopo quasi venti anni, nei giorni  dell’operazione “Muraglia di Difesa” (Seconda Intifada), era stato sul punto di ordinare alle forze armate israeliane (entrate a Ramallah) di colpirlo. Fermato dagli americani, Sharon scelse di confinare Arafat nella Muqata di Ramallah, dove il leader palestinese rimase fino alla fine dei suoi giorni. La morte però avvenne in Francia dove Arafat era stato “autorizzato” da Israele ad andare a curarsi. Il presidente palestinese si spense per una emorragia cerebrale devastante, poche ore dopo un apparente miglioramento. I medici francesi non furono in grado di stabilire la causa della malattia che aveva causato nell’organismo del presidente palestinese un inspiebabile brusco calo delle piastrine. I palestinesi hanno sempre creduto all’avvelenamento di Arafat. Solo poco più di un anno fa però, grazie alla tv al Jazeera e alle analisi svolte da un laboratorio svizzero sugli indumenti del leader scomparso, è emersa questa presenza del polonio, altamente radioattivo. Il rapporto ottenuto da al Jazeera spiega che sul corpo riesumato di Arafat sono stati registrati livelli di polonio 18 volte superiori alla norma. Gli esami hanno riscontrato in particolare un «innaturale alto livello di polonio radioattivo nelle costole e nel bacino» e che c’è «un 83% di probabilità che sia stato avvelenato». Il rapporto è stato consegnato a Parigi a Suha Tawill, la vedova di Arafat, che ha commentato: «Sono di nuovo a lutto, è stato come se mi avessero detto che è appena morto». Netto il giudizio dell’ex ministro degli esteri Nabil Shaath. ««E’ stato avvelenato da chi lo voleva morto», ha detto. Shaath ha invocato un’inchiesta internazionale per accertare come e chi abbia usato il polonio contro Arafat.

L’ex ministro degli esteri ha evitato di accusare apertamente Israele. Il caso-Arafat tiene sulle spine i vertici palestinesi. Se davvero si è trattato di avvelenamento, a compierlo non può essere stata che una persona rimasta accanto ad Arafat nei giorni in cui era confinato nella Muqata. Da qui la cautela (a dir poco) che in questi anni ha spinto i leader dell’Anp e lo stesso Abu Mazen a tenere una linea di basso profilo sulla vicenda. Girano peraltro voci di pressioni americane volte a non dare risalto all’esito degli esami di laboratorio per non compromettere le trattative bilaterali israelo-palestinesi riprese a luglio e che appaiono tutte in salita. L’Anp è furiosa per la corsa alla colonizzazione dei Territori occupati in cui si è impegnato il governo di Benyamin Netanyahu da quando sono ripartiti i colloqui diretti. La crisi è evidente e nell’ultimo incontro di martedì sera tra i negoziatori delle due parti si è sfiorata la rissa. Ieri il Segretario di stato Usa John Kerry  – in missione nella regione – dopo l’incontro a Betlemme con Abu Mazen ha sostenuto che l’Amministrazione Obama considera «gli insediamenti israeliani illegittimi e dannosi per il proseguimento del processo di pace». E ha smentito che i palestinesi abbiano acconsentito alla costruzione di nuovi alloggi nelle colonie in cambio della liberazione dei detenuti da parte di Israele, come invece afferma Netanyahu. «Voglio essere assolutamente chiaro, un simile accordo non c’è mai stato», ha detto, aggiungendo che gli Usa cercheranno di limitare l’espansione degli insediamenti il più possibile. Parole che assieme alla promessa di una ulteriore donazione Usa (75 milioni di dollari) all’Anp, hanno ancora una volta placato la rabbia di Abu Mazen. I problemi però restano. Per Netanyahu le colonie in espansione non sono una minaccia per il negoziato. Il premier vedendo ieri Kerry (che ha incontrato di nuovo in serata) – ha addossato tutta la responsabilità ai palestinesi, che, a suo dire, «con il loro incitamento, continuano a creare crisi artificiali, continuano ad astenersi dal prendere le decisioni storiche necessarie per fare la pace». Le colonie non sono l’unico motivo di scontro. I palestinesi si oppongono con forza anche a una presenza israeliana nella Valle del Giordano, invocata da Netanyahu, senza dimenticare le diversità sui confini tra Israele e il “futuro” Stato di Palestina, la questione dei profughi e Gerusalemme.