Unità speciali della polizia contro oppositori politici descritti sommariamente come “terroristi”, arresti di dissidenti, sparizioni di detenuti. Nell’Arabia saudita che aspetta il 16 gennaio a Gedda la Supercoppa italiana tra Juventus e Milan – inutili gli appelli a non disputare l’incontro lanciato da intellettuali, artisti, Ong e giornalisti – la cronaca è ricca di violazioni dei diritti umani. Sei uomini sono stati uccisi a inizio settimana in un’operazione delle forze di sicurezza nella città di Jish, nella provincia orientale di Qatif dove si concentra la minoranza sciita considerata ostile dalle autorità centrali, se non addirittura nemica. Come siano andate le cose non è chiaro. L’agenzia statale Spa ha scritto che «Durante un’operazione preventiva lanciata lunedì all’alba è stata circondata una casa a Jish. All’interno c’erano sette persone. Si sono rifiutate di arrendersi. Le forze di sicurezza hanno risposto al fuoco». Tutto qui.

Nel regno dei Saud, alleati stretti delle democrazie occidentali, il rispetto dei diritti umani è nullo. La tortura e talvolta l’eliminazione fisica di dissidenti e oppositori non sono pratiche sconosciute. Lo dimostra il caso del giornalista Jamal Khashoggi ucciso e fatto a pezzi lo scorso 2 ottobre nel consolato saudita a Istanbul. Alla ribalta ora c’è la vicenda dell’attore comico Fahad al Butairi, 33 anni, che spesso prende di mira la casa regnante, e di sua moglie, Loujain al Hathloul, 29 anni, un’attivista dei diritti delle donne. Entrambi sono stati arrestati nel 2018 e di loro si sa poco o nulla. A lanciare l’allarme via twitter è stato il produttore televisivo americano Kirk Rudell, amico della coppia. Rudell chiede che fine abbia fatto Butairi, il luogo della sua detenzione resta sconosciuto. Della moglie, per anni alla testa della protesta contro il divieto di guidare per le donne, si sa solo che è in un carcere femminile. Inutili le denunce giunte da Amnesty e Human Rights Watch.

Buone notizie invece per Rahaf Al Qunun. La ragazza saudita che si era barricata in un hotel all’aeroporto di Bangkok perché maltrattata dalla famiglia, ha ottenuto lo status di richiedente asilo dall’Alto Commissariato Onu per i rifugiati. Arrivata dal Kuwait è stata fermata a Bangkok e si è vista confiscare i documenti su richiesta delle autorità saudite e kuwaitiane per essere partita senza il consenso del suo tutore maschio. I tailandesi poi hanno rinunciato ad espellerla a causa delle proteste sui social. Quindi è intervenuto l’Unhcr ad impedire il rimpatrio a Riyadh contro la volontà della ragazza.