Per rifarsi un’immagine sui media statunitensi e guadagnare consensi nell’establishment politico di Washington, l’Arabia saudita spende ogni mese 565 mila dollari, 6 milioni e 780 mila all’anno. Spese escluse.

È quanto sostiene – calcolatrice alla mano – il giornalista investigativo Eli Clifton, che nei giorni scorsi ha fatto le pulci alla campagna di pubbliche relazioni negli Usa del regno dei Saud. Fino a un paio di anni fa Riyadh è riuscita a cavarsela facilmente. Il decennale accordo di collaborazione strategica con gli Usa gli ha garantito impunità e una certa benevolenza da parte dei media.

Ma con l’aggravarsi della crisi siriana e l’affermarsi dell’Isis – che attinge a piene mani alla dottrina di stato saudita, il wahabismo settario – l’opinione pubblica occidentale ha cominciato a guardare la monarchia sunnita con sempre maggiore scetticismo e preoccupazione.

Molto si è scritto sulle responsabilità dei Saud nella diffusione del settarismo, sui finanziamenti a fondazioni-moschee-scuole religiose in tutto il mondo come strumento di controllo culturale ed economico, meno, molto meno, sui soldi impiegati per costruire o riverniciare la propria immagine, ormai offuscata. Ancora di più oggi, dopo l’esecuzione dello sceicco sciita Nimr al-Nimr, voce autorevole della comunità sciita in Arabia saudita, dove rappresenta tra il 10 e il 15% della popolazione, subendo discriminazioni nei settori dell’educazione, del lavoro, della giustizia, dell’espressione religiosa.

Subito dopo l’annuncio della decapitazione di Nimr al-Nimr, nei talk show americani sono scesi in campo i neoconservatori, pronti a difendere il boia di Stato saudita, sulla base dell’assunto che «il nemico del mio nemico», l’Iran, «è mio amico». Ma i neocons hanno perso smalto, convincono poco, il pubblico sa che sono faziosi. Da qui, il ricorso agli esperti stranieri, considerati più «neutrali». Tra questi il commentatore saudita Salman al-Ansari che, intervistato dal New York Times, ha accusato lo sceicco sciita di aver «organizzato un «network terrorista» nelle aree sciite della parte orientale» del paese, paragonandolo agli ideologi di al-Qaeda. L’esperto Ansari – scrive il giornalista Eli Clifton – è stato fornito al Nyt da Podesta, un colosso delle pubbliche relazioni, tra i più influenti al mondo, che compare nella lista che il governo saudita ha inviato al Congresso Usa in base al Foreign Agent Registration Act (Fara), una legge del 1938 che richiede che gli attori e le aziende che rappresentano interessi stranieri «politici o semi-politici» negli Usa dichiarino attività e finanziamenti.

Tra le aziende incluse nella lista «Fara» come principali agenti per l’Arabia saudita compaiono Dla Piper, Targeted Victory, Qorvis/MSLGroup, Pillsbury Winthrop, Hogan Lovells, oltre al gruppo Podesta. La parte del leone la gioca però Qorvis/MslGroup, azienda con sede a Washington che – recita la presentazione sul sito – «gestisce la reputazione di governi, corporation e individui».

Secondo gli accertamenti di Eli Clifton, il gruppo sembra ricevere dai Saud 240 mila dollari al mese per servizi come newsletter settimanali, distribuzione di tesi o fatti per «promuovere l’Arabia saudita, il suo impegno nel contro-terrorismo, la pace nel Medio Oriente», oltre che per gestire un sito web sull’operazione militare in Yemen voluta da Riyadh.

Dla Piper – studio legale internazionale presente in oltre 30 paesi, Italia inclusa – riceve invece 50 mila dollari al mese per servizi vari, tra quali la lobby con «membri del Congresso» e rappresentanti istituzionali al fine di «promuovere interessi reciproci» tra Usa e Arabia saudita nel campo della sicurezza nazionale. Sommando le cifre sborsate alle diverse aziende, si scopre che «l’Arabia saudita spende 565 mila dollari al mese per le sue operazione di lobbying a Washington, spese escluse. Ciò equivale a 6,78 milioni di dollari all’anno». Una bella cifra. Inferiore a quella impiegata – e più difficile da certificare – per le pubbliche relazioni nel settore della Difesa. E sicuramente superiore a quella che i Saud impiegano per influenzare giornali, politici e imprenditori in Italia.