Lo Yemen è vicino alla fine dell’attacco militare. Parola di Riyadh: ieri durante una conferenza stampa congiunta con il segretario britannico Philip Hammond, il ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir ha annunciato la prossima conclusione dell’operazione “Tempesta decisiva”. «Gran parte del territorio dello Yemen che era stato occupato dai ribelli ora è stato ripreso dalle forze governative – ha detto – Una delle indicazioni che la campagna è vicina alla fine è data dall’accettazione da parte di Ali Abdullah Saleh e degli Houthi della risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu 2216».

Gli Houthi hanno accettato di ritirarsi dai territori occupati dal settembre 2014 – come previsto dalla risoluzione in questione – già due settimane fa, aprendo al dialogo sponsorizzato dalle Nazioni Unite. Ma la stessa coalizione, che oggi prospetta di un’interruzione dei raid, ha rigettato quella proposta etichettandola come “poco credibile” e continuando con bombardamenti a tappeto. La ragione di tale violenza è l’intenzione di distruggere il movimento Houthi prima di arrivare ad una soluzione negoziale: Riyadh, che considera lo Yemen il proprio cortile di casa e che manovra il presidente Hadi (messo al posto dell’ex Saleh proprio dai sauditi), non vuole condividere il potere, soprattutto con una compagine che ritiene manovrata dall’Iran.

Eppure, nonostante l’accusa rivolta agli Houthi di essere burattini di Teheran sia il mantra dei paesi membri della coalizione anti-sciita, tale ruolo della Repubblica Islamica appare molto sfocato. A parole la leadership iraniana non manca di criticare l’operazione militare saudita, ma sul terreno fa poco. I rapporti tra il movimento Ansarullah, riferimento politico Houthi, e Teheran non sono mai stati particolarmente stretti, tanto che molti analisti evitano di utilizzare la terminologia saudita: gli Houthi non sono proxy dell’Iran, gli Houthi non sono Hezbollah. È vero che negli ultimi anni Teheran si è avvicinata al movimento sciita nell’ambito della stabilizzazione di una propria zona di influenza nella regione, ma l’intervento iraniano non è mai stato radicato, né in termini militari che finanziari.

Per cui l’isteria saudita appare come la migliore delle coperture per riprendere il controllo totale dello Yemen, negli anni diventato dipendente dagli aiuti finanziari di Riyadh. Per questo la petromonachia ha iniziato questa guerra, trasformando la ribellione del movimento Houthi e l’occupazione di aree del paese da parte dei ribelli in una delle operazioni militari più sanguinose di sempre: in sette mesi 6mila yemeniti hanno perso la vita, altri 14mila sono rimasti feriti, più di un milione è fuggita all’estero o nel resto del paese.

Ora l’Arabia saudita dice di voler porre fine ai raid. Sul campo però si muore ancora: ieri almeno 13 lavoratori sono stati uccisi da un bombardamento della coalizione anti-Houthi che ha colpito l’autobus che li stava portando da Taez alla capitale Sana’a. Altri 14 i feriti. Troppo spesso i target sono civili: tre giorni fa nel mirino saudita era finito l’ospedale di Medici Senza Frontiere nella città settentrionale di Sa’ada. Un attacco che ha provocato lo sdegno internazionale: fortunatamente nessun paziente né membro dello staff è morto nei ripetuti raid contro la struttura, ma resta la grave violazione compiuta dall’aviazione saudita. Tanto grave da aver spinto il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, a condannare l’attacco.

La condanna Onu ha fatto infuriare Riyadh: l’ambasciatore saudita al Palazzo di Vetro, Abdallah al-Mouallimi, ha negato ogni responsabilità nel raid e criticato Ban Ki-moon per aver mosso accuse prima di avere in mano i risultati dell’inchiesta. In ogni caso, ha aggiunto, la colpa non è dell’aviazione di re Salman, che conosceva le coordinate dell’ospedale, ma dei ribelli Houthi. Che però non hanno a disposizione aerei da guerra.