Sebbene Salvatore La Fata, disoccupato catanese di 56 anni, non sia la prima torcia umana a bruciare in una piazza italiana, la sua vicenda è tragicamente esemplare. A tal punto che, questa volta, anche sul versante sindacale v’è qualche reazione adeguata. Dopo il tempestivo sit-in di solidarietà nei suoi confronti e di condanna del comportamento della polizia municipale, promosso dal circolo «Città Futura», pure la Cgil si è attivata. Ha, infatti, annunciato una conferenza-stampa per oggi,mercoledì 24 e una manifestazione unitaria, con le altre centrali sindacali, per il pomeriggio di venerdì 26, nella stessa piazza Risorgimento che è stata teatro dell’atroce protesta.

Operaio edile specializzato, spesso partecipe d’iniziative sindacali, La Fata era stato licenziato due anni fa. Il cantiere in cui lavorava era stato costretto a chiudere, come tanti: a Catania, riferisce la Fillea, ben diecimila edili hanno perso il lavoro negli anni recenti. Per un po’ Salvatore (sposato, due figli a carico) aveva sopportato umiliazione e vergogna. Poi, pur di non stare con le mani in mano, da alcuni mesi s’era messo a vendere qualcosa in piazza Risorgimento: nient’altro che due o tre cassette di olive e fichi d’india, appena venti euro di merce. Troppo per la squadra di vigili urbani, agguerrita e ultra-motorizzata, che al mattino del 19 settembre fa irruzione in piazza. In tempi di crisi e di disperazione sociale è quel che ci vuole: non sia mai che le classi pericolose si mettano a far di testa loro per sbarcare il lunario, invece che sopportare pazientemente la morte civile, contribuendo così al disegno deciso in alto loco. Fuor di sarcasmo, è da notare come, parallelo allo sfacelo sociale provocato dalle politiche di austerità, vada intensificandosi un crudele accanimento repressivo contro attività informali di nessun rilievo penale, volte alla pura sopravvivenza.

Ma torniamo a quel mattino catanese. Salvatore è lì, con le sue cassette, quando i vigili urbani minacciano di multarlo e di sequestrargli la merce. Secondo dei testimoni, lui li scongiura di evitargli almeno il sequestro. I vigili lo prendono in giro e, quando lui grida che è pronto a darsi fuoco, uno degli agenti replica che lo faccia pure, ma spostandosi un po’ più in là. Sta di fatto che nessuno di loro interviene per tutto il tempo in cui va a rifornirsi di carburante, torna in piazza, si cosparge di benzina e si dà fuoco. E neppure mentre è già avvolto dalle fiamme. Lo ammette implicitamente il comandante della Polizia municipale, nel tentativo di giustificare i suoi: «Se c’è stata qualche incertezza da parte dei vigili, è perché siamo impreparati a questo tipo di soccorso». Così che, mentre scrivo, Salvatore è in prognosi riservata nell’ospedale di Acireale. I suoi familiari hanno annunciato che intendono querelare i vigili urbani. «Non è possibile – ha detto il fratello nel corso del sit-in – che tutto passi sotto silenzio solo perché noi siamo figli di nessuno».

È quasi pleonastico osservare quanto questa storia somigli a quella di Mohammed Bouazizi, «la scintilla» della rivoluzione tunisina. Quanto sia simile, anche, alla vicenda del giovane marocchino Noureddine Adnane, morto il 19 febbraio 2011, dopo nove giorni d’agonia dacché s’era dato fuoco in una piazza di Palermo: anch’egli ambulante, ma regolare, eppure vittima di vessazioni da parte d’una «squadretta» di vigili urbani in odore di neonazismo. Peraltro, lo schema di queste due storie è del tutto sovrapponibile a quello delle centinaia di casi che ho raccolto nei paesi del Maghreb, nonché in Europa e in Israele.

Ad accomunarne molti v’è uno stesso «dettaglio», cioè il comportamento arrogante, persino di sfida, delle forze dell’ordine: un’autentica istigazione al suicidio. E in tutti i casi il suicidio per fuoco è un grido disperato di ribellione e protesta, un gesto sovversivo di sottrazione violenta del proprio corpo alla violenza del sistema, per citare Baudrillard. Destinato, delle volte, a cadere nel vuoto; altre volte, come in Maghreb, a perpetuare il ciclo rivolta-immolazione-rivolta; in un caso, quello tunisino, a scatenare un’insurrezione popolare.

Da noi, c’è uno iato profondo fra la drammaticità dell’autoimmolazione pubblica – atto non solo disperato, ma anche di speranza nel genere umano, in fondo – e la nostra impotenza. Da noi, non c’è alcun soggetto collettivo che rivendichi come proprio «martire» chi si è immolato o che sia capace di cogliere fino in fondo il nesso fra le proprie rivendicazioni e la disperazione sociale che spinge alcuni a suicidarsi in pubblico. Eppure le torce umane e più in generale i suicidi «economici» sono indizio di un conflitto sociale latente. Quello che la politica, i sindacati, perfino i movimenti non sempre sanno rendere esplicito, né sempre organizzare in forme razionali ed efficaci, tali da impedire che altri corpi umani ardano nelle piazze.