Nel 1924, due anni dopo la pubblicazione diUlysses, classico immediato del modernismo destinato a indicare una direzione rivoluzionaria alle forme del romanzo, James Joyce mandò alla sua amica e mecenate Harriet Shaw Weaver un quaderno di abbozzi per un altro cantiere letterario appena aperto; era un piccolo sketchbook frammentario ispirato a miti e temi della storia d’Irlanda che in gran parte sarebbe stato destinato poi a riversarsi, con una rielaborazione durata nel complesso sedici anni, nell’opera suprema del dublinese, Finnegans Wake. Ora, questi materiali, pubblicati in giugno dalla casa editrice Ithys Press, sono stati presentati dal loro curatore Danis Rose come una epocale scoperta letteraria, ma è risaputo che per la gran parte erano noti: li aveva trascritti, infatti, nel 1963 David Hayman in un volume intitolato A First-Draft Version of Finnegans Wake. Ora escono anche in versione italiana grazie a uno dei nostri traduttori magistrali, Ottavio Fatica, tutt’altro che estraneo allo scrittore visto che negli anni novanta aveva cominciato una propria traduzione di Ulysses.

Il libro, titolato Finn’s Hotel (Gallucci «Alta Definizione», introduzione di Danis Rose e postfazione di Seamus Deane tradotte da Giovanna Granato, pp.125, euro 13,00), comprende anche i disegni di Casey Sorrow che accompagnano la molto più costosa edizione originale e viene presentato da Danis Rose in maniera decisamente sensazionalistica come una raccolta organica di prose brevi, anzi di epicleti, al pari dei racconti di Dubliners. Non esiste da parte della maggioranza degli studiosi più accreditati una diffusa accettazione di questa ipotesi, che non è confortata (al di là di quanto afferma con sicurezza Danis Rose nella prefazione) da prove evidenti della volontà dell’autore di intendere questi pezzi in prosa in modo diverso da materiali di lavoro relegati nel cassetto. Il che inclinerebbe a confermare alcune ombre emerse sullo studioso in altre non troppo cristalline, anzi molto commerciali, occasioni editoriali del passato.

Sono comprensibili, quindi, lo scalpore e lo sconcerto suscitati da questa pubblicazione e i seri dubbi che ha sollevato negli ambienti internazionali dei Joyce Studies. Ma il punto è anche un altro, vale a dire l’irlandesità sottesa a questi testi, che Seamus Deane, general editor dell’opera di Joyce per la Penguin, discute nella sua postfazione. Joyce, che scelse per sé e la propria famiglia la via dell’esilio nella Trieste babelica di inizio Novecento e nell’Europa cosmopolita dell’entre-deux-guerres, in realtà non smise mai di guardare all’Irlanda, e anche nell’ultima, ambiziosissima opera, per chi osservi bene, i riferimenti intimamente Irish sono fondamentali. In questo senso, la sua assenza volontaria dall’Irlanda e dalla sua paralisi è coincisa con la ricerca forsennata della proiezione di una presenza più acuta, inesorabile. Così come lui stesso nelle ultime opere pubblicate avrebbe cercato di proiettare Dublino e l’Irlanda su un ricorsivo piano di corrispondenze epiche, mitiche e cosmiche.

Tutto questo è già rivelato nei pezzi sperimentali di Finn’s Hotel, dove sono fra l’altro attive a livello embrionale le forze irresistibili di quella che sarebbe divenuta la acomedy of letters di Finnegans Wake, con la trascinante, benché indubbiamente ostica, potenza sonora e associativa di quella ultralingua giocosa e gioiosa in ogni parola della quale brucia una lotta, si accende un «tour de farce». Come in Ulysses, qui il fulcro della scrittura è il potere, la paternità, il tradimento, l’abnegazione, l’invidia e la gelosia; e, al fondo di tutto, la colpa: «un primo reato forosetto o venereatorio che era de focto un malaccorto caso, a farla grossa, di parziale esibizionismo» che è anche l’oggetto dell’ultimo pezzo, la «lettera erronima» di Anna Livia destinata a incorporarsi nel libro compiuto.

Chi si accinga all’impresa incosciente di tradurre la lingua di Finnegans Wake, a parte digerire una immane bibliografia per poi sapere di doversene a volte affrancare, dato il gioco di ricreazione che un simile lavoro rende necessario, deve scontrarsi con il paradosso insormontabile di avere a disposizione uno splendido esempio di «traduzione» italiana ad opera dell’autore stesso: il brano di Anna Livia Plurabelle che Joyce riconcepì in italiano con l’aiuto di Nino Frank e che costituisce l’ultimo pezzo letterario da lui pubblicato, nel 1940. Là – come hanno mostrato Rosa Maria Bollettieri Bosinelli e Umberto Eco – Joyce va oltre se stesso come solo lui poteva: facendo saltare in aria ogni teoria e ogni rigida fedeltà all’equivalenza in traduzione («Rimboccamaniche e scioglilinguagnolo»).

Ottavio Fatica si avvicina a Joyce nell’unico modo che gli è possibile, e cioè costeggiando l’impossibile, spingendo il genio dell’italiano a lavorare oltre la lettera e a cavallo del suono, facendosi parlare da esso, tentando di strappare alle forze originarie della nostra lingua un’allegria, una joyicity che pur radicata nelle strutture di una lingua differente diventa immediatamente suo patrimonio. La direzione è proficua: l’approdo ideale è conseguire in questo modo un livello ulteriore di elaborazione testuale, germinativa, da cui si liberino prismaticamente le molte facce della lingua, dall’aulica alla dialettale.

Nella sua nota del traduttore, Fatica scrive brillanti osservazioni che forse faranno storcere il naso a qualche ligio ierofante del culto joyciano, ma che sono un’utile quanto spregiudicata introduzione ai meandri di uno scrittore eccezionale e eccessivo – oltre che per forza d’orecchio e determinazione progettuale – in molti aspetti del proprio carattere: più che un prodigioso lettore, Joyce è per lui «un piluccatore quanto mai avvertito: non fa che piluccare tutto il tempo, dappertutto (da qui l’effetto enciclopedico) con un superlativo senso dell’economia finalizzato unicamente all’esito».

Con lui, se si comincia da «avanguardoni», si rischia di finire pur sempre «avanguardiani» sotto la sferza di quel «palincesto», quell’original sinse che è la vita e il linguaggio stesso. Tra san Kevin, il re Roderick O’Conor, san Patrizio e il bacio di Tristano e Isotta (cioè il «bucione tra Trustano e Usotta»), i monoliti della Storia si sciolgono nelle acque di queste storielle e pettegolezzi; così da quella montagna che Joyce, scrivendo e ridendo di notte, si prodigava ad attaccare da più direzioni (senza sapere all’inizio cosa vi avrebbe trovato né come avrebbe legato le varie parti), emerge sbozzato il personaggio centrale del Finnegans Wake, lui stesso uomo-montagna: Humprey Chimpden Earwicker, ovvero un superpadre che è un Noitutti, Here Comes Everybody (reso da Fatica, manieristicamente, con un divertito endecasillabo: Eccoquì Convenir Hominognuno).

Di fronte allo sconcerto dei contemporanei per il suo Work in Progress man mano che ne uscivano parti sulla rivista «Transition», Joyce si chiedeva come facessero a non notare quanto era buffo e divertente il suo libro. Che sia un libro ancora non letto, ancora da aprire, è un fatto acclarato. Bisogna che il suo futuro lettore, per sfruttarne la potenza liberatoria, sappia sgretolare i pregiudizi più scontati riguardo al linguaggio. «Tutte le macchine che conosco sono sbagliate», scrisse Joyce a Weaver nel 1927. «Sto facendo una macchina con una ruota soltanto. Niente raggi, naturalmente. La ruota è un quadrato perfetto. Lo vede dove voglio andare a finire, no?».

Finnegans Wake, come anche queste tracce frammentarie dimostrano, è una macchina testuale fluttuante, in mutamento continuo, in grado di accogliere altrettante interpretazioni quanti sono i lettori che la attraversano e se ne fanno attraversare. Ed esige un lettore ostinato e enigmista, disponibile a far sì che il vertiginoso congegno del polyhedron of scripture abbia gioco, pronto a abbandonarsi alla deriva comica del linguaggio del dream book così come all’invasione pirotecnica di nuove immagini, associazioni e analogie allo stato nascente.

Ma con Finn’s Hotel siamo di fronte solo a un preludio, a una campionatura di qualcosa ancora in larga parte imprevedibile, e pretendere di divinare la struttura e i sensi del mastodontico opus del 1939 partendo dai dieci abbozzi del 1923 qui raccolti sarebbe come voler ricostruire il progetto articolato di un radiotelescopio spaziale da un pugno di viti e bulloni. Però il lettore avrà comunque puns per i suoi denti. Che sia o no un ponte di passaggio tra le due vette di Ulysses e Finnegans Wake, al di là della sua effettiva rielaborazione nell’organismo dell’opera maggiore, Finn’s Hotel può strategicamente servire a affilare la mente in attesa di salpare nell’oceano di quella vendetta contro Babele che è la Wake.

Un oceano fatto di onde di suoni e sensi multipli e simultanei da intercettare a orecchio, da godere e ridirsi a voce, da lingustare un giorno nella lingua di Dante reinventata al futuro, ovvero, nei termini di Joyce, «the divine comic Denti Alligator».