Gli uomini in nero sono a Roma per concludere il loro tour novembrino in Europa. Il trittico di partite proponeva loro, prima della passerella all’Olimpico, due test alquanto impegnativi: l’Inghilterra e l’Irlanda, rispettivamente quarta e seconda nel ranking mondiale. La sfida di Twickenham ha visto gli All Blacks uscire vincitori per un solo punto: 16-15. Poteva andare in ben altro modo se a una manciata di minuti dalla fine l’arbitro non avesse annullato una meta inglese per un fuorigioco. Su questa decisione la stampa britannica ha molto dibattuto, ma quel parziale di 0-15 nel primo tempo a favore del XV della Rosa spiegava più di ogni altra cosa le difficoltà incontrate dagli uomini in nero.  oi è arrivata Dublino. La sfida con gli irlandesi era il match che vale un’intera stagione, il confronto tra la numero 1 e la numero 2, la possibile finale della prossima coppa del mondo. E lì, in un Aviva Stadium pieno zeppo e con il pubblico in estasi, la Nuova Zelanda è caduta. 16-9, sette punti di scarto, con la meta di Jacob Stockdale a marcare una differenza che ai più è parsa ben più evidente per quanto si è visto durante gli ottanta minuti di gioco. 16 a 9, un punteggio finale da tempi antichi, quando le mete arrivavano col contagocce o non arrivavano affatto. Ancora una volta – e nonostante il prodigarsi del governo di World Rugby, proteso ad alchimie di ogni sorta pur di aumentare il numero di mete segnate nei match al fine di soddisfare il palato di un pubblico sempre meno competente – la bellezza di un confronto è stata caratterizzata non dal pallottoliere ma dalla drammaturgia del match e dalla qualità dei suoi interpreti.

DIRANNO, con qualche ragione, che gli All Blacks erano stanchi, che era l’ultimo atto di una lunga e massacrante stagione internazionale, che il logorio fisico e mentale di molti suoi giocatori ha pesato sugli esiti. E’ vero. La squadra che in questi ultimi otto anni ci ha assuefatto alla perfezione del suo gioco è apparsa (finalmente!) vulnerabile, restituendo così al rugby una dimensione umana nella quale oltre agli dei c’è posto anche per i semi-dei e per i comuni mortali. Ma soprattutto il match di Dublino ha consacrato definitivamente l’Irlanda: non più e soltanto la migliore delle “altre” bensì vera e propria contendente al trono di Ovalia. Le “altre” rimangono tali, andando a comporre un ceto nobiliare in lotta perenne ma per ora escluso da ambizioni di dominio: la distanza dalle prime due è al momento incolmabile. “Ad oggi l’Irlanda è la numero 1 del mondo”, ha dichiarato nel dopo match Steve Hansen. Non era una semplice frase di cortesia ma una presa d’atto. Il verdetto di Dublino è chiaro e incontestabile e ci dice come stanno le cose oggi. Domani si vedrà.

LA VITTORIA della squadra di Joe Schmidt è stata costruita sulla difesa: un baluardo insormontabile da qualunque parte lo si assaltasse. La cosiddetta “rush defense” – che consiste nel repentino avanzamento della prima linea difensiva verso gli attaccanti avversari non appena la palla esce dal raggruppamento, allo scopo di placcare immediatamente il portatore di palla, impedendo ogni sviluppo dell’azione – ha asfissiato le fonti di gioco neozelandesi. Questo schema difensivo, mutuato dal rugby a 13, non è privo di rischi, necessitando interpreti tanto magistrali quanto ossessivi, ma l’Irlanda è oggi la squadra che lo sa meglio applicare. Quel muro di maglie verdi, che aggredivano con feroce spietatezza e perfetta scelta di tempo, ha soffocato ogni anelito di vita dei tuttineri, e con il passare dei minuti li ha sprofondati in una dimensione di frustrazione e impotenza. La Nuova Zelanda che domani vedremo in campo contro l’Italia non è certo quella delle grandi occasioni, dei match che valgono una stagione. La differenza dei valori tecnici tra le due squadre è tale da non lasciare dubbi sugli esiti della sfida. Anche per questo gli All Blacks presenteranno una squadra largamente rimaneggiata e piena di seconde scelte. Cambia quasi tutta la trequarti, con l’eccezione del regista Bauden Barrett e dell’estremo Damian McKenzie, cambiano la prima e la seconda linea (l’immenso Brodie Retallick va in panchina). Della formazione di sabato scorso ne restano soltanto quattro, compreso il capitano Kieran Read. E’ convinzione diffusa che le seconde file neozelandesi siano più che sufficienti per liquidare le resistenze degli azzurri, resta da vedere quale sarà lo scarto nel punteggio e come i padroni di casa sapranno affrontare l’impegno.

Conor O’Shea si è detto contento della prestazione di squadra contro l’Australia ma non dell’incapacità di concretizzare le buone occasioni. Oggi la sua squadra avrà molte meno opportunità di fare punti ma a contare sarà la continuità, il reggere botta per tutti e ottanta i minuti di gioco migliorando soprattutto la fase di possesso e la gestione della palla. Mancherà l’infortunato Matteo Bellini, a segno sia con la Georgia che con l’Australia, sostituito da Sperandio, conferma per tutti gli altri.

Italia: Hayward; Benvenuti, Campagnaro, Castello, Sperandio; Allan, Tebaldi; Steyn, PolledriNegri; Budd, Zanni; Ferrari, Ghiraldini, Lovotti.

Nuova Zelanda: McKenzie; J. Barrett, Lienert-Brown, Laumape, Naholo; B. Barrett, Perenara; Read, Savea, Fifita; S. Barrett, Tuipulotu; Laulala, Coles, Tungafasi.

Diretta tv: DMax, ore 15