Woody Allen l’ha ignorata per decenni, apparendo per la prima volta a una cerimonia degli Academy Awards nel 2002, per presentare un omaggio post 9/11 a New York. La cerimonia non piaceva nemmeno a Katharine Hepburn (12 nomination e 4 vittorie) che ci è andata solo nel 1974, per presentare un premio al produttore Lawrence Weingarten. Marlon Brando, nel 1973, non andò a ritirare l’Oscar per Il padrino; e mandò un’attivista indiana di nome Sacheen Littlefeather a rifiutarlo. Disse no anche George C. Scott, premiato per Patton. Hitchcock, Hawks, De Mille Chaplin non hanno mai vinto statuette (se non alla carriera). Lo stesso vale per Orson Welles, Kirk Douglas, Fred Astaire e Barbara Stanwick. Nessuno di loro ha dato segno di patirne troppo, o promosso boicottaggi di massa. Ma oggi, quei tempi di anticonformismo sono lontani. E, ad eccezione del non show di Jean-Luc Godard, due anni fa, l’Oscar è diventato un’istituzione imprescindibile, anche per chi decide di stare a casa in segno di protesta. Peggio ancora, venuto a mancare ogni distacco critico-ironico, sta diventando l’unica lente con cui giudicare il «cinema di qualità». Insieme a queste riflessioni, qui sotto è un manuale per l’uso della cerimonia di domenica sera.

 

 

 

 

 

 

 

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Il momento più atteso.
In genere arriva alla fine, con il vincitore nella categoria di miglior film. Ma quest’anno sarà all’inizio della cerimonia quando si scoprirà come Chris Rock, presentatore della serata, intende affrontare la controversia sull’assenza di afroamericani tra le nomination. Rock, che aveva già presentato gli Oscar nel 2005 (dove, per ridicolizzare l’Academy, aveva intervistato degli spettatori afroamerican nessuno dei quali aveva visto i film nominati quell’anno), ha l’irriverenza e il mordente comico per elevare e, allo stesso tempo demitizzare, il dibattito su #OscarSoWhite. Magari come «equal opportunity offender», prendendo di mira i bianchi ma anche i neri – a partire da Spike Lee, che non sarà presente domani in segno di protesta ma si è tenuto l’Oscar alla carriera che l’Academy gli ha consegnato il novembre scorso.Rock (che ha prodotto un irresistibile documentario sul rapporto tra afroamericani e i loro capelli, Big Hair) ha detto «no» quando gli è stato chiesto -in solidarietà con #OscarSoWhite – di esimersi dal presentare la serata, coprodotta (insieme a David Hill) dal regista black Reginald Hudlin (House Party) Ci vediamo domenica..# blackout # oscar – era il suo tweet ieri mattina. Out vuol dire fuori…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Come si vota
Tra le inesattezze diffuse con la tempesta mediatica scoppiata su # OscarSoWhite e alla componente demografica dell’Academy (quasi tutti maschi, bianchi, over sixties..), alcune sono relative alle votazioni. Prima di tutte, l’idea che gli Oscar abbiano una «giuria». Non è vero. I (circa seimila) membri dell’ Academy (a cui si accede su invito dell’organizzazione stessa) votano per il miglior film e poi, a seconda, ognuno di loro vota nella propria categoria (gli attori votano gli attori, i direttori della fotografia votano i direttori della fotografia, i registi i registi e così via). I membri che non hanno una categoria «premiabile» – per esempio i publicist- votano solo in quella di miglior film.

Nomination e statuetta per il miglior film straniero sono attribuite da un gruppo di volontari che deve sottostare al calendario di proiezioni di tutti i film stranieri in lizza. È un gruppo a parte anche quello che vota il documentario.

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I pronostici
Le possibili sorprese non sembrano molte. É ancora favorito, per il miglior film, The Revenant, il revisio-western di Alejandro Gonzales Inarritu. Negli ultimi giorni, si è tornati a parlare delle chance di The Big Short e di Spotlight; e molti insiders gli preferiscono Max Max: Fury Road, un successo d’azione che, insieme al gesto visionario di un regista, riflette una creatività più allargata del cinema da studio. Ma è probabile che, forte anche del voto degli attori che sognano un ruolo che permetta loro di affondare i denti nel fegato di un bisonte, The Revenant ce la faccia. George Miller potrebbe avere più fortuna con i registi: intanto è molto più simpatico ai suoi colleghi di Inarritu e poi ha fatto un film più creativo e meno pretenzioso, che piace molto alla New Hollywood.

 

 

 

 

Nonostante la sua interpretazione sia più monocorde di quella in The Wolf of Wall Street, Leonardo Di Caprio pare il destinatario inevitabile della statuetta di migliore attore (le sevizie subite dal suo Hugh Glass, il rito obbligatorio per vincere, come l’anno scorso il cancro di Julianne Moore in Still Alice). Mentre quella di miglior attrice è diretta verso Brie Larson, la mamma di Room – specie dopo i commenti non politically correct che Charlotte Rampling si è lasciata scappare su #OscarSoWhite.

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Sylvester Stallone (Creed) e Kate Winslet (Jobs) sono molto gettonati per le categorie supporting, anche se l’ attrice non protagonista dell’anno è Jennifer Jason Leigh, magnifica in The Hateful Eight e Anomalisa. Sicure le vittorie di Inside Out (miglior film animato) e Ennio Morricone (miglior colonna sonora). Molto probabili anche quelle di Amy tra i documentari e Son of Saul tra i migliori film stranieri.