Trieste Film Festival, alla sua ventisettesima edizione, propone un programma che sulla carta appare il migliore da parecchi anni. Sembra soprattutto riuscito il mix tra i titoli inediti nei concorsi e l’inclusione, quali eventi speciali, di alcuni dei realmente maggiori film dell’anno dall’area centroesteuropea, apparsi ad altri festival ma che giustamente questo festival fa propri come tappe di sguardo necessarie nel proprio percorso geografico attraverso il cinema. Si potranno così vedere con gioia gli ultimi Skolimowski, Zulawski, Ioseliani, e delle panoramiche significative del cinema romeno e di quello polacco.

Riappare anche qualcosa di simile a una retrospettiva ma che è più giustamente chiamata focus: la scommessa sul cineasta polacco Marcin Koszalka, presente anche in concorso al suo esordio nella finzione dalla provenienza documentaristica.

Non si può tuttavia dimenticare che la vera ultima retrospettiva del festival è rimasta quella folgorante dedicata nel 2012 a un altro polacco, Grzegorz Krolikiewicz, curata da Federico Rossin. E qui purtroppo va rilevato che il festival si è perso l’ultimo film del regista, non meno straordinario dei precedenti: ma Sasiady (Neighborhooders) non è stato strappato a Trieste da qualche festival maggiore, purtroppo è un film di cui nessun festival si è accorto, e dispiace che il Trieste Film Festival si sia allineato a un caso di “pensiero unico” sempre più dominante nell’universo festivaliero, anziché contraddirlo con la fedeltà a una propria scoperta passata.

Sembra che proprio da quel 2012 si sia accentuata nei festival la biforcazione tra quanti ritengono le retrospettive quasi un impiccio di programmazione (vale, nella regione Friuli Venezia Giulia, sia per l’ex Alpe Adria Cinema che per ScienceplusFiction e Udine Far East) e quanti invece le superano in un riportare al presente il cinema di ogni epoca (Giornate del cinema muto, Mille occhi, come a Bologna Cinema Ritrovato); pochi ormai i festival che come Locarno mantengono la forma retrospettiva dandole pari dignità col programma delle novità. Oltretutto molti festival nemmeno più si attrezzano con proiettori 35mm e 16mm, e devono far finta che il DCP sia meglio anche per i film realizzati in pellicola.

La pur bella sezione polacca di quest’anno soffrirà proprio del dover riproporre il cinema fisico di Kieslowski in copie DCP, e ci si dovrà “consolare” con la presenza fisica in sala di Irène Jacob.

Appare quindi più organica l’altra maggiore selezione nazionale in programma, dedicata al nuovo cinema romeno, con alcuni dei maggiori autori che, dopo i primi esordi a 35mm, sono passati felicemente al digitale. Vedremo così riuniti il più recente film di Corneliu Porumboiu, autore che apparve in crescita col suo film precedente, e il nuovo film di Radu Muntean, il cui film d’esordio fu tra i più sottovalutati della “nuova onda” romena. Ci saranno inoltre film di Radu Jude, Florin Serban e in altre sezioni di programma opere di Nicolae Constantin Tanase, Ilinca Calugareanu, Tudor Giurgiu… Praticamente si tratta della più estesa panoramica romena da parte del festival che nel 2001 realizzò la più ampia retrospettiva del cinema romeno in epoca Ceausescu ma poi seguì un po’ di riflesso da altri festival la nuova onda, di cui oggi possiamo riscoprire l’appartenenza a una storia cinematografica nazionale ancora poco nota ai suoi stessi giovani autori. Non è un caso: quando non scattano le diversamente ingannevoli ricodificazioni della cinefilia, nulla è più “normale” quanto l’ignoranza di un passato che invece potremmo sentire come proprio. D’altronde solo oggi siamo in grado di capire che il neorealismo non doveva superare un precedente “cinema di cadaveri” ma semmai lo vampirizzava; che la nouvelle vague si è fatta sedurre dal gollismo per rimuovere il precedente non meno grande cinema francese; che il cinema italiano dei primi anni ’60 si radicava sugli anni ’50 (è anche quanto Olaf Möller ci dirà a Locarno del cinema tedesco-federale in epoca Adenauer rispetto alla presunta rivoluzione successiva; noi in Italia potremmo ben dire di peggio della frattura dei tardi anni ’60, momento di fraintendimenti come pochi). Vale anche per le cinematografie nate dalla Jugoslavia, da cui provengono quest’anno l’inaugurale film croato di Dalibor Matanic Zvizdan di prossima distribuzione italiana da parte della Tucker, il serbo Oleg Novkovic con Patria e il già affermato sloveno Jan Cvitkovic. Anche qui il festival trascura un po’ certi autori attivi in modo tuttora interessante, dal vojvodinese Zelimir Zilnik allo sloveno Vlado Skafar, sempre “bucato” da questo festival, o perché va a Rotterdam come quest’anno, o perché il festival triestino non arrivava a convincersi del suo valore.

Quest’edizione del festival sviluppa ricchi appuntamenti paralleli come il Premio Corso Salani, Eastweek, When East Meets West, Born in Trieste e Trieste Art&Sound. In coincidenza con la rivelatrice mostra sulla scultrice Fiore de Henriquez l’associazione Cizerouno realizza una serie di appuntamenti oltre le “frontiere di genere”, con la partecipazione della cantante transgender Salome.

Ci piace sottolineare nel programma la fedeltà del festival a un’autrice come la lettone Laila Pakalnina, presente in concorso col suo recente Ausma dopo esser stata omaggiata qualche anno fa (anche con ritorno a Trieste) dal Premio Darko Bratina di Gorizia, una rassegna piccola ma spesso perspicace nelle scelte, come anche quest’anno col ticinese Villi Hermann.

Dai territori ex- sovietici arrivano al programma anche altre cose promettenti, come il film del russo Vitalij Manskij sulla Corea del Nord, territorio ormai particolarmente stimolante per il cinema, che meriterebbe un pensierino per qualche programma inventivo di festival.

Tra i film meritoriamente ripresi da altri festival (insieme al greco Chevalier di Athina Rachel Tsingari) c’è anche il film-omaggio al grande storico e archivista del cinema sovietico Naum Kleiman, già presentato alle ultime Giornate di Pordenone per la bella lezione-incontro con Kleiman. Si tratta di Cinema: A Public Affair di Tatiana Brandrup, documentario utile ma forse un po’ al di sotto del suo personaggio, un po’ appiattito sulla sua immagine di dissidente antiputiniano.

Nel sottogenere “documentari sui cinefili” ci sembra molto adeguata la presenza al festival del ceco Filmova lazen di Miroslav Janek, sulla direttrice del festival di Karlovy Vary, Eva Zaoralova. Perché si è trattato di una delle grandi amiche centroesteuropee di Annamaria Percavassi, nel cui ricordo quest’edizione del festival si svolgerà. Ci sarà difficile dimenticare che l’anno scorso, quando già Annamaria era molto ammalata, la sua apparizione sul palcoscenico del festival fu un momento estremamente struggente, in cui lei ci diede la percepibile emozione di essere per l’ultima volta presente. Si trattò di un momento quasi insostenibile di commozione, rispetto a cui il recente incontro dedicatole dopo la morte al Teatro Miela è stato il più giusto rovesciamento “vitale”: organizzato dalla famiglia, condotto nel tono più giusto dalla figlia Francesca, con la presenza dell’altro figlio e dei tanti nipoti, senza discorsi retorici ma col riuscito obiettivo di scoprire la vitalità anche privata di chi si omaggiava, è stato davvero il miglior viatico alla nuova edizione del festival “di cui sempre Annamaria sarà il direttore artistico” come da parole di convinzione senza enfasi della figlia. E qui chi scrive vuole testimoniare ancora una volta come i contrasti che ci divisero fossero in realtà un arricchimento per entrambi, rispetto a cui ho sempre pensato che non ci eravamo mai tolti nulla ma solo dati delle opportunità: e quindi “saremmo pari” se non ci fosse la percezione da parte mia che, per hybris cinefila, non riuscii mai a farle sentire affetto e amicizia. Purtroppo il cinema, luogo della verità a 24 fotogrammi al secondo, è anche un luogo di inganni, verso se stessi e verso gli altri.