Con 138 voti a favore, 71 contrari e 21 astenuti il Senato ha approvato la delega al governo sul «reddito di inclusione» (Rei), una misura categoriale, condizionata all’inserimento lavorativo e sottofinanziata con 1,6 miliardi nel 2017 e 1,8 miliardi nel 2018 che coprirà il 30% dei «poveri assoluti» ed esclude sette persone indigenti su dieci.

La legge delega approvata da Palazzo Madama riguarderà, una volta resi esecutivi i relativi decreti, oltre 400 mila nuclei familiari, 1,770 milioni di persone. In Italia i poveri assoluti sono 4 milioni e 600 mila. Le persone coinvolte dovranno dimostrare uno stato di indigenza assoluta presentando un Isee fino a 3 mila euro. Il «Rei» sarà erogato, in primo luogo, alle famiglie numerose in presenza di figli minorenni, o disabili, a condizione che il capofamiglia accetti di sottoscrivere un «patto» con i centri per l’impiego per l’«attivazione e l’inclusione sociale e lavorativa». Se rifiuterà, o non rispetterà gli impegni contratti con l’«équipe multidisciplinare» creata per seguire il suo «inserimento» lavorativo sarà sottoposto a una serie di penalizzazioni fino alla perdita del sussidio che può arrivare fino a un massimo di 480 euro a famiglia.

La misura che il ministro del lavoro e del Welfare Giuliano Poletti ha definito enfaticamente «un passo storico» è una misura «strutturale» ma non universale. Ovvero non permette a tutti i 4,6 milioni di «poveri assoluti», senza contare gli oltre 8 milioni di «poveri relativi» (i working poors, i poveri che lavorano) di accedere al sostegno indipendentemente dall’appartenenza a una categoria. Il «Rei», così com’è stato concepito, non garantisce nemmeno l’acquisto del paniere di beni e servizi in grado di mantenere una vita dignitosa. Si tratta di una misura di «workfare», la prima sperimentazione italiana di un sistema di «politiche attive del lavoro» che in Germania è tristemente noto come «legge Hartz IV». Il rischio di simili misure è quello di governare la povertà attraverso la povertà, ingabbiando i soggetti all’interno di una trappola da cui è difficile uscire.

Lo schema di questo provvedimento ricalca quello dei «Reis», il «reddito di inclusione sociale» presentato dall’Alleanza contro la povertà, un vasto cartello di associazioni e sindacati che da tempo ha proposto un piano strutturale nazionale di intervento contro l’indigenza. Per Roberto Rossini, presidente Acli e portavoce dell’Alleanza, il Ddl «è quasi esattamente quello che noi abbiamo proposto, ma manca il tema dell’universalità della prestazione. Nel provvedimento persistono alcune categorie beneficiarie, mentre noi partiamo da un criterio del reddito, senza categorie».

Il capitolo delle risorse stanziate dal governo Gentiloni, che ha ricevuto l’ingombrante eredità dal precedente Renzi, è particolarmente delicato. L’Alleanza contro la povertà ha previsto un investimento di 1,7 miliardi per il primo anno per arrivare al quarto anno a uno stanziamento di sette miliardi. All’anno. Ovvero lo 0,34% del Pil contro l’attuale 0,1%. La media europea per una misura contro la povertà è dello 0,4%. Nel caso del «Rei» il finanziamento è previsto fino al 2018. L’intenzione, a parole, è di arrivare alla soglia dei 7 miliardi. Per il momento la misura resta sottofinanziata. I criteri di ripartizione e le cifre esatte saranno stabiliti solo da un decreto del ministero del lavoro. «Un pannicello caldo meno che insufficiente» l’ha definito la capogruppo di Sinistra italiana al Senato Loredana De Petris. «È un passo in avanti, ma serve una misura universale» sostiene Cecilia Guerra (Capogruppo Mdp).

«Un passo avanti per venire incontro alle famiglie in difficoltà. L’impegno sociale è una priorità del Governo» ha commentato su twitter il presidente del Consiglio Gentiloni. Per la presidente della Camera Laura Boldrini «dal Senato è arrivato un segnale positivo».

«Ddl sulla povertà? Siamo alle solite: non risolve il problema in modo strutturale e si fa il gioco delle tre carte. Noi da quattro anni abbiamo depositato un Ddl sul reddito di cittadinanza» ha detto il presidente della commissione di vigilanza, Roberto Fico (Movimento 5 Stelle). Quello di M5S non è un «reddito di cittadinanza», ma un «reddito minimo» rivolto anche ai poveri relativi dal costo di 14 miliardi annui ed è più conforme alle caratteristiche di un «reddito minimo» di cui l’Italia è priva. Insieme a una proposta di Sel/Sinistra Italiana giace in parlamento. Ma di questo non si parla, oggi.

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*** Il bluff del governo sui poveri: un sussidio per un milione su quattro
Welfare all’italiana. Il governo Gentiloni rilancia il Ddl abbandonato al Senato, stanziato poco più di 1 miliardo. Ne servono altri sei

*** I più poveri d’Europa
Dopo la Grecia, l’Italia è il paese europeo dove la povertà è aumentata di più dal 2008. Al Sud ci sono più italiani che stranieri nei centri Caritas. Cresce la miseria tra i giovani senza lavoro. La caritas chiede un piano universale entro il 2020, ma il governo ha approvato una misura per soli due anni con fondi insufficienti per affrontare l’emergenza

***La bufala del reddito minimo e la realtà dei poveri in Italia
Il governo Renzi sta promuovendo una nuova bufala. Dopo avere scambiato il «Jobs Act delle partite Iva» per uno «statuto del lavoro autonomo», ora è impegnato in un’altra campagna. Il Cdm avrebbe approvato addirittura il «reddito minimo». In realtà si tratta di un sussidio per un milione di poveri assoluti (su 4)

*** Per essere degni ci vuole come minimo un reddito
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