Paola Cavallari, presidente dell’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne, autrice di Non sono la costola di nessuno (Gabrielli editore) e di altri volumi sulle questioni di genere, è una delle quattro promotrici della lettera aperta alle gerarchie ecclesiastiche.

Quando è nata l’idea della lettera aperta?

Ha una lunga gestazione, covava come un desiderio a cui si esitava dare forma compiuta. Poi, quest’inverno, insieme alle altre tre promotrici abbiamo «messo al mondo» ciò che stava germinando nei nostri corpi e menti e abbiamo scritto il testo. Lo abbiamo poi esteso ai nostri contatti, intessendo relazioni a volte assai feconde. Era tutto pronto per l’8 marzo, ma l’esplosione della pandemia ci ha fermato. Quindi esce oggi, nel calendario cristiano giorno di Pentecoste, giorno della discesa dello Spirito, della Ruah. E questo ci pare un segno profetico. La inviamo anche al presidente della Cei, sperando in un riscontro.

Scrivete che «non è una richiesta di cooptazione all’interno del sistema clericale». Cosa chiedete?
È un monito, un atto di presa di parola. Pensiamo che sia giunto il momento che si riconosca nei fatti, e non solo a parole, che le Chiese sono spazi di donne e uomini, soggetti di pari dignità. Ci interessa molto la pace nel mondo, ma vogliamo affermare che essa non potrà mai instaurarsi se non si intraprende una conversione che sia «uno stare di fronte» l’uno all’altra, come dice la Genesi, superbo emblema dell’alterità, in uno statuto di parità costitutiva dei due soggetti. Non si può parlare al posto delle donne e colonizzarle. Non si può innalzarle idealmente e poi svilirle nella pratica di vita e nelle relazioni concrete. Non si può chiedere loro quella complementarietà che va smascherata, perché nei fatti significa subordinazione».

Nella lettera si elencano le richieste di perdono dei papi (per Galileo, per l’Inquisizione, per i preti pedofili). Perché si fa fatica a chiedere perdono alle donne? Forse perché non si ammettono colpe?
La giornalista femminista statunitense Jamie Manson, sul National catholic reporter, ha scritto più di una volta che la questione delle donne è l’unica questione su cui papa Francesco fatica a elaborare e a intraprendere un cammino autenticamente evangelico. Tutte stimiamo papa Francesco e lo apprezziamo. Ma non possiamo tacere le chiusure che, nei fatti, costellano il mondo femminile».
Non basta la richiesta di perdono, ci vuole anche dell’altro…
Naturalmente ci vuole altro, e lo abbiamo scritto. La teshuvà, la conversione, è un complesso e faticoso riattraversamento degli errori commessi che porta a una trasformazione del proprio io, il quale si decentra allora rispetto all’altro. Succede per gli individui, come per le istituzioni. L’ammissione delle colpe non ha nulla di vendicativo, semmai è un itinerario di purificazione. Come scriviamo nella lettera: «Ce lo hanno insegnato Nelson Mandela e Desmond Tutu con i processi sulla verità, la giustizia e la riconciliazione in Sud Africa: è l’ammissione della violenza compiuta da parte di chi l’ha esercitata che lascia libere le vittime e permette loro di parlare e ricominciare a vivere.

La questione riguarda solo la Chiesa cattolica o anche altre Chiese e fedi religiose?
Anche altre comunità di fede. E oso dire che riguarda le donne nel loro complesso. Hanno firmato la lettera anche donne di comunità religiose non cattoliche e non cristiane, perché hanno sentito che il tema le riguardava, hanno capito che si tratta di una sfida comune, anche se nello specifico parte in seno al cattolicesimo. Infatti abbiamo scritto: Le donne che, pur non essendo credenti, ritengono tuttavia che il simbolico religioso sia stato e sia determinante nella costruzione delle relazioni inique tra i sessi sono caldamente invitate ad unirsi a noi. Ringraziamo tutte. Infatti così è stato e ci sono firme di donne che non si autodefiniscono “credenti” – peraltro lo stesso cardinal Martini sollevava dubbi su una demarcazione apodittica tra credenti e non –, ma che sono consapevoli che l’immaginario e simbolico originatosi dalla tradizione giudaico-cristiana ha impregnato la cultura tutta».