Gli Stati uniti hanno iniziato l’invio di armi – senza specificare quali – ai peshmerga kurdi perché impediscano l’avanzata dei jihadisti dello Stato islamico in Iraq e nel Levante (Isil). Nel frattempo è stato evacuato il personale del consolato Usa a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno. Forse è il segno che nemmeno Obama crede nella sua strategia.

Lo stato iracheno infatti si sta frantumando non tanto e non solo per l’arrivo dell’Isil o per il mancato rafforzamento militare dell’opposizione siriana – come rimprovera Hillary Clinton al presidente statunitense – ma come risultato finale dell’occupazione militare Usa dell’Iraq nel 2003. L’obiettivo perseguito fin dal 1991: la spartizione dell’Iraq in tre zone in base alle appartenenze etnico-religiose, si sta realizzando con gli effetti più devastanti.

Sebbene i combattenti kurdi siano stati gli unici a contrastare, in parte, l’avanzata dei fanatici jihadisti non basteranno gli «aiuti» statunitensi (i bombardamenti che continuano da parte Usa e l’invio di armi) a sconfiggere al Qaeda, non potranno infatti essere i kurdi a «liberare» l’Iraq. Sembra di assistere al remake dell’avventura afghana quando gli Usa puntarono tutte le loro carte sui tagiki dell’Alleanza del nord. Il fallimento afghano con il ritorno dei taleban evidentemente non è bastato.

I raid americani – il primo intervento in Iraq dopo il ritiro delle truppe nel 2011 – avrebbero colpito obiettivi dell’Isil, ma non è dato sapere quali. Del resto non è facile avere informazioni dalla zona dei combattimenti, soprattutto dopo che la giornalista kurda Deniz Firat, dell’agenzia Firat, è stata uccisa da una scheggia. Deniz si trovava nella zona di Makhmur la città che sarebbe stata riconquistata dai peshmerga insieme a Gwer. L’Isil avrebbe invece occupato Jalawla, più a est.

Nella provincia di Ninive si sta consumando la tragedia dei profughi delle minoranze: gli yazidi e i cristiani. Migliaia di yazidi sopravvissuti alle minacce, ai massacri e alla fame, dalla zona di Sanjir si sarebbero diretti prima in Siria e poi nel Kurdistan, dove si trovano anche gran parte dei cristiani.

Ma l’attenzione nel frattempo si è spostata a Baghdad dove è in corso il braccio di ferro tra il nuovo presidente Fuad Massum e l’ex premier Nuri al Maliki, che non vuole rinunciare al terzo mandato. Massum ha dato l’incarico per formare il nuovo governo a Haider al Abadi, ma al Maliki sembra deciso a sfidare il presidente.

Al Maliki, abbandonato anche dagli americani, è uno dei maggiori responsabili della situazione irachena. Dispotico, autoritario – nello scorso mandato aveva tenuto per sé il ministero della difesa, degli interni e il comando dell’intelligence – e ultrasettario: ha escluso da tutti i ruoli di potere, dall’amministrazione pubblica e dall’esercito, i sunniti. Tanto che l’avanzata dell’Isil nelle zone sunnite non ha trovato alcuna opposizione. Ma contro una nuova nomina di al Maliki, sebbene il suo partito – Stato di diritto – abbia vinto le ultime elezioni (senza ottenere la maggioranza), si è schierata anche gran parte dell’Alleanza nazionale sciita.
L’ex premier porterà la sua determinazione a restare al potere alle estreme conseguenze con un golpe, come lascerebbe intendere il dispiegamento nei luoghi strategici di Baghdad dell’esercito, delle forze di polizia e delle unità di élite che rispondono solo a lui?

Il presidente Massum, kurdo secondo la costituzione, forse in attesa degli americani, sta in qualche modo tentando di fermare il «nuovo dittatore» come viene chiamato al Maliki dall’opposizione.Ma comunque fornendo armi non si è mai posto fine alle guerre, la deriva in Libia lo dimostra.