Business is business, soprattutto quando c’è in gioco la Cina: un’indagine pubblicata dal New York Times sulle operazioni di Apple in Cina ha rivelato una crescente politica di appeasement alle richieste di Pechino.

La ricerca analizza decine di documenti interni e dichiarazioni di 17 dipendenti, più quattro ex esperti di sicurezza della nota azienda americana.
Tim Cook, amministratore delegato di Apple, sarebbe responsabile dell’ingresso dei controllori cinesi in settori strategici dell’azienda. Per due decenni Apple ha lavorato duramente per accedere al competitivo mercato cinese, paese dove ha da tempo il suo principale hub di assemblaggio. Circa il 17% delle entrate di Apple dipendono dalla Cina, per un introito di 43.7 miliardi di dollari l’anno. Secondo gli esperti, l’indagine su Apple fornisce un raro approfondimento delle dinamiche che incastrano anche le big tech straniere nei meccanismi di controllo di Pechino.

L’immagine che emerge è quella di una crescente pressione delle autorità cinesi sulle compagnie straniere: anche quelle con enormi capitali a disposizione e fama internazionale non sembrano immuni all’ingerenza del Partito.

Apple viene accusata di aver appaltato i propri data center a una società statale, la Guizhou-Cloud Big Data (Gcbd), ma non solo: anche la censura delle app sotto indicazione delle autorità cinesi dimostrerebbe una propensione a adeguarsi alle direttive per evitare conflitti o ritorsioni.

La Apple non ha perso il controllo sui dati, afferma un portavoce dell’azienda, si è solo attenuta alle normative cinesi. La nuova legge sulla cyber security in vigore dal 2017 impone, infatti, che gli archivi dei dati di tutte le aziende operanti in Cina siano localizzati entro i confini nazionali. Oggi questa normativa è una delle leve di Pechino per mantenere il controllo sulle compagnie che investono in Cina: il governo può accedere ai dati bypassando i diretti interessati attraverso la compagnia (cinese) che ne detiene la proprietà legale. Sarebbero comunque molti di più i dati sensibili che Apple fornisce a Washington, puntualizza l’azienda.
Apple non è la sola a dover fare i conti con i regolatori cinesi: la scorsa estate, le sedi a Hong Kong di Hsbc e Standard Chartered hanno lanciato un comunicato a favore della nuova legge di sicurezza nazionale, controversa perché apre spazi di manovra all’ingerenza di Pechino negli affari dell’ex colonia britannica.

A volte i problemi sono arrivati, sottovalutati, attraverso campagne di boicottaggio bottom-up: dall’Nba per un tweet sulle proteste a Hong Kong fino alle multinazionali che rifiutano il cotone dello Xinjiang. Nonostante la nuova assertività dell’amministrazione Biden nei confronti della Cina, le aziende non sembrano disposte a rischiare gli affari per questioni politiche.