In questi anni i tecno-entusiasti non solo hanno sottolineato l’indiscutibile cambiamento connesso alle nuove tecnologie della comunicazione, a partire dalla vita quotidiana di ognuno, ma hanno richiamato il potere di trasformazione socio-economica implicito in tali tecnologie, caricandole di un ruolo che sembra sovrastimato. L’esperto di economia del web Yochai Benkler, che Carlo Formenti definisce «anarco-liberista», ha teorizzato per i nuovi media la produzione orizzontale, in cui tendenzialmente i singoli individui possono competere con le big company del settore dentro un inedito contesto tra pari.

La relazione tra tecnica e cambiamento indubbiamente è complesso, ma è andato sviluppandosi un pensiero che individua nelle nuove tecnologie dell’informazione un mezzo attraverso il quale poter cambiare i connotati al sistema. Dalla prefigurazione di una riforma piena in senso liberista (la competizione davvero tra uguali) fino a un sistema di condivisione e socializzazione, passando per la democrazia partecipata o diretta. Ma su tali temi la questione non è mai tecnica, esistono problemi di ordine socio-economico e politico. È più probabile che gli assetti dell’attuale economia di mercato assorbano le innovazioni piuttosto che farsi cambiare i connotati.

Abbiamo diversi segnali in questa direzione. Non tanto per come agli inizi del secolo sia esplosa in maniera piuttosto tradizionale la bolla delle dot-com, quanto per come i principali attori delle nuove tecnologie stiano ibridandosi, nel loro crescere di status, coi consueti meccanismi di mercato. Il rapporto con le Borse dei colossi del web è congenito: dopo la crisi degli anni ’90 è ripartita una seconda ondata in borsa con recenti protagonisti come facebook e twitter. Ma la compenetrazione tra sistema finanziario e start up non si esaurisce qui.

Il Financial Times ha rivelato che Facebook potrebbe ricevere l’autorizzazione dalla Banca centrale irlandese per «farsi» banca, offrendo servizi finanziari e pagamenti elettronici e dunque aprendo nuovi scenari. Come sostiene Luca De Biase, giornalista che segue il mondo digitale, «il denaro è informazione»: chi meglio di coloro che si occupano di informazione potrebbe gestire il denaro? Per soggetti che da tempo studiano gusti, preferenze e orientamenti dell’utenza il vantaggio di occuparsi di servizi finanziari è notevole.

Tali compagnie, inoltre, possono contare sulla localizzazione più favorevole in termini di regole fiscali, alterando ulteriormente la gestione di depositi e scambi internazionali. Basti pensare al contenzioso aperto dalla magistratura di Milano con Apple, che per il 2013 ha pagato tasse in Italia per una cifra pari a 8 milioni di euro, mentre solo la dozzina dei suoi Apple store hanno fatturato quasi 300 milioni. Il sospetto è che l’azienda di Cupertino abbia eluso per il 2010-2011 oltre 1 miliardo di imponibile. L’escamotage con cui si pagano meno tasse del dovuto appare quasi legale, in quanto la maggioranza dei costi vengono pagati in Irlanda, secondo una competizione al ribasso sulla tassazione.

Come ogni innovazione tecnica anche i nuovi media rappresentano un fattore ambiguo, da un lato potenzialità liberatorie e di partecipazione, dall’altro la tendenza a farsi fagocitare dagli assetti socio-economici dominanti. Le tante analogie con il sistema vigente fanno propendere per tale torsione.
Non è forse un caso che il 16 e 17 maggio in varie città d’Europa, a Roma, Milano, Bologna, per la prima volta si manifesta davanti agli Apple store. Un ritorno al futuro?