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«Chi sa parli. Lo Stato non può sopportare una violenza impunita di questo tipo». È la seconda carica dello Stato, a lanciare un appello ai «rappresentanti delle Istituzioni che sono certamente coinvolti» nel caso della morte di Stefano Cucchi. Lo fa da Bari, il presidente del Senato, Piero Grasso, durante le celebrazioni della giornata dell’Unità nazionale e delle forze armate. Esprimendo una «doverosa e giusta solidarietà alla famiglia della vittima di violenza», l’ex procuratore nazionale antimafia aggiunge che «la violenza non può far parte della dignità di uno Stato civile, soprattutto quando viene da rappresentanti delle istituzioni. Noi speriamo di continuare a cercare la verità – conclude – nonostante ci siano state delle sentenze che non hanno saputo o potuto trovarla».

A parlare sono tanti ma purtroppo non sempre spinti da anelito di verità. Eppure, se i familiari della vittima continuano ad essere bersaglio di accuse e anche oggetto di querele da parte di certi sindacati di polizia, c’è anche chi, tra i “servitori dello Stato” a quella famiglia chiede scusa «per questo oltraggio infinito».
Si chiama Francesco Nicito, il poliziotto della questura di Bologna che ci mette la faccia, sfida il frainteso senso di corpo delle forze dell’ordine e con una lettera pubblicata on line dall’Espresso racconta: «Servo lo Stato da 26 anni, soltanto grazie a un prudente disincanto che mi permette ancora di sopravvivere tra le pieghe di quel medesimo nulla costituito per lo più da ingiustizie, bugie, miserie umane, silenzi, paure, sofferenze. Oggi intendo rompere quel silenzio cui si è condannati quasi contrattualmente da regolamenti di servizio che impongono e mitizzano l’obbedire tacendo, perché le parole pronunciate dal Segretario nazionale del Sap all’esito della pronuncia di assoluzione non restino consegnate anch’esse al fenomeno di cui sopra».

«Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze», aveva detto Gianni Tonelli appena dopo la sentenza d’appello che ha assolto tutti gli imputati. Ieri invece è stata la volta di Donato Capece, leader del Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria, che da Radio 24 ha accusato la famiglia di aver «abbandonato» il giovane romano morto all’ospedale Pertini, al settimo giorno del suo arresto. L’agente Nicito – che fa parte di quelle «forze dell’ordine che non sono Capece e non sono Tonelli. E sono dalla parte della gente», secondo Ilaria, la sorella di Stefano – chiede «scusa alla famiglia Cucchi per questo oltraggio infinito, per questa deriva che non può rappresentare la totalità degli appartenenti alle forze di polizia neppure quelli a cui per regolamento è precluso il diritto di indignarsi e di affrancarsi dalla convivenza col divieto di opinione. Nel dubbio, semplicemente nel dubbio».

Chi non ha alcun dubbio è invece il senatore Udc Giovanardi: «Cucchi – dice – era un tossicodipendente, aveva fatto uso di eroina, cocaina e varie altre droghe. Era uno spacciatore. Quando è stato ricoverato era chiaro che fosse una persona fragile e incapace di gestirsi. I medici avrebbero dovuto obbligarlo a mangiare e bere. Tutti i periti del processo hanno affermato questo: lo hanno lasciato morire di fame e di sete. La famiglia chiede giustizia? Bene, ma questo non significa che la sorella e l’avvocato possano fare il pubblico ministero e il presidente della Corte». Parole che il deputato Pd Danilo Leva definisce «sciagurate, da persona irresponsabile a cui forse non è chiara la gravità del caso. Prima di parlare ancora Giovanardi guardi bene le foto del giovane Stefano».

Ha ancora dubbi invece, il procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, sulla possibilità di presentare ricorso in Cassazione (lo farà comunque la parte civile). Una decisione che prenderà, ha detto ieri, solo dopo aver esaminato «la motivazione che darà la Corte d’assise di appello alla decisione di non accogliere le richieste di condanna degli imputati, fatte con ampia e argomentata requisitoria dal Pg di udienza, valutandone la congruità, la coerenza e la legittimità». Poi la procura «valuterà, di conseguenza la sussistenza di motivi di ricorso in Cassazione, dove già pende altro ricorso, sempre presentato dalla procura generale di Roma, contro un’altra sentenza relativa alla presunta responsabilità del personale medico del carcere di Regina Coeli che diede assistenza a Cucchi prima del trasferimento all’ospedale Pertini».