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Rubriche

Apparire e sparire della Roma di Cardarelli

Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti
Pubblicato 3 mesi faEdizione del 5 luglio 2024

«Ieri 15 giugno, Cardarelli è morto al Policlinico, dov’era da un mese. Gran cultore di Leopardi, è morto anche lui (quasi) come Leopardi, a causa di un’indigestione di gelati, che poi è degenerata in una broncopolmonite. Da un mese non parlava più: solo ogni tanto, quando qualcuno entrava nella stanza diceva piano: “Noiosi”».

Così Ennio Flaiano in uno dei Fogli di via Veneto datato 1959, raccolti nel postumo La solitudine del satiro. «Queste note, scritte in vari momenti, non sono qui in ordine cronologico», avverte Flaiano, «quello che volevo ricordare è una strada, un film (La dolce vita), un vecchio poeta: cose disparate che si mescolano poco chiaramente non solo nella memoria ma anche in un diario. I salti di tempo hanno dunque una loro ragione». Salti di tempo che, in realtà, corrispondono ad una dimensione interiore, tra emotiva e memoriale, che si assesta coerente. Il risultato di quelle trenta brevi ‘note’ è infatti, in scorcio, una rappresentazione compatta e perfetta di Roma tra 1952 e 1962. Dove bene l’autore dà conto della ‘presenza’ di Vincenzo Cardarelli, la sua figura che mantiene viva, affidandola agli scrittori e agli artisti della generazione di Flaiano, non solo una temperie letteraria dell’Italia che risale ai primi del Novecento, ma una immagine di Roma insieme invariata e mutante, riflessa così nelle sue strade, nei caffè, nei teatri, come nelle consuetudini delle sue notti e dei suoi giorni: le amicizie, le discussioni, i progetti.

Del resto Cardarelli ha elaborato nel corso della intera sua vita un’idea di Roma di intensità estrema, dotata della irresistibile seduzione che solo esercita una prosa asciutta, diresti aderente ai luoghi e così capace di cavarne sensazioni e ragionamenti partecipati e conformi, tanto da rendere pleonastica ogni ulteriore aggiunta. Perché sono rilievi così affilati i suoi e sono così nitide osservazioni le sue, da sublimarsi nel fantastico e convertire nel visionario, sì che restano memorabili, acquisiti una volta per sempre a condizionare un punto di vista, a formulare un giudizio, a determinare un gusto. Un aderire che si fa intrinsechezza, che si immedesima fino a pervenire al capriccio, a lambire l’immaginario.

Trascrivo un brano che a me pare indicativo di questa peculiare attitudine di Cardarelli. Si legge in Prologhi. Viaggi. Favole (1931): «Nelle notti serene, quando la luna esuberante e vana inonda ogni cosa e crea paesaggi di fiaba, potrai, dimenticando il giorno faticoso di Roma, accostarti alle facciate rugiadose e accoglienti dei palazzi famosi e ascoltare il sussurro delle loro intense storie. Potrai confabulare colle ombre sotto i colonnati. Lungo le vie antiche, attraversate da qualche arco da cui pende un lampione, contemplerai, con un leggerissimo brivido, il viavai dei delitti passati, dei fantasmi truci, delle memorie di sangue che lordano Roma, mentre il tuo passo sull’ammattonato suonerà estraneo e irreale». La contemplazione intensa che produce un brivido quando raggiunge l’acme e coinvolge il corpo.

Ma è certo nelle pagine di Aspetti di Roma e di Roma della mia giovinezza, raccolte in Il cielo sulle città (1939) che Cardarelli ci fornisce, se così posso esprimermi, la forma paradigmatica della sua idea di Roma. La «dimestichezza con la vita romana del Rinascimento» si acquisisce piena, dice, in via Giulia dove si prende cognizione del carattere «fluviale» di Roma. La ‘natura’ si fa paesaggio nel travertino delle fontane e nel movimento a racemi delle «altissime facciate barocche, le quali, a misura che si allontanano dalla terra, diventano sempre più bianche, più immacolate, e lassù, in quelle regioni remote, eterne, non arrivano che i piccioni, le rondini e la tramontana».

Cardarelli è del resto persuaso che la bellezza di Roma vive per se stessa e si appaga in una sua speciale capacità di apparire e sparire, nel rispetto d’un ordine che sembra superare il variare delle stagioni e delle epoche mentre «ci rammenta ad ogni passo la nostra fragilità, la nostra miseria, ma, nel tempo stesso, tutto di Roma conduce a farci guardare in alto».

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