Da tempo, Arjun Appadurai, antropologo di origini indiane ormai celebre per le sue risistematizzazioni degli assetti culturali seguiti alla globalizzazione, ha avviato il cantiere di una teoria generale dell’agire calcolativo con l’ambizione di replicare per il capitalismo contemporaneo l’operazione genealogica riuscita a Max Weber. Di fronte a un capitalismo ormai sganciato dall’ascetismo calvinista e preda di speculazione e indebitamento, Appadurai torna a chiedersi quale sia il modello etico, lo «spirito» che informa l’agire orientato al profitto.

Nell’età globale l’ethos dominante sembra essere il rischio, categoria recente e tutta quantitativa, la cui valenza risalta per contrasto col carattere qualitativo, non numerico, dell’incertezza. È il rischio a saturare il vasto campo dell’ignoto e dell’incerto, attraverso la produzione crescente di modelli statistici e probabilistici.

Un esame ravvicinato della sfera finanziaria e in particolare dei suoi prodotti più innovativi e produttivi, i derivati, riserva tuttavia delle sorprese. Evoluzione estrema dei primi contratti a termine e delle tutele assicurative contro gli imprevisti del commercio marittimo, i derivati si presentano come scommesse su scommesse che consentono di monetizzare il rischio e venderlo e rivenderlo come una merce, allontanandosi progressivamente dai valori reali da cui ‘derivano’.

Noi, operai del debito
Per rendere possibile questa trasmutazione, la sfera finanziaria mette in atto una vera e propria «macchina delle promesse infrante». Come tutti i contratti, infatti, anche i derivati poggiano su promesse, ma – ed è questo il punto archimedeo – si tratta di promesse altamente specifiche che funzionano come quelle evidenziate da John L. Austin, cioè come atti linguistici performativi, in grado di modificare stati di cose nel mondo (al pari di enunciati come «vi dichiaro marito e moglie» o «la seduta è aperta», che fanno quello che dicono e dicono quello che fanno).

La «macchina delle promesse infrante» si articola in una catena di tre fattispecie: le promesse ‘austiniane’ pure, le promesse agonistiche – cioè simultanee e incompatibili, subordinate a condizioni future ignote a entrambi i contraenti – e le promesse dilazionate, che prorogano l’adempimento all’infinito. Tutte funzionano come enunciati performativi e vengono formulate in condizione di incertezza. I derivati in particolare operano come promesse agonistiche, vale a dire che gli scommettitori allo scoperto non fissano il prezzo futuro in base a calcoli probabilistici, ma in regime di contingenza, formulando su un futuro incerto delle promesse ‘creative’, forse persino venate di carisma. Continuamente differite e disattese, queste stesse promesse sono destinate, prima o poi, allo schianto.

In questo quadro concettuale, il collasso finanziario di inizio millennio risulta, innanzi tutto, un fallimento del carattere performativo linguaggio: è cioè un crollo del castello di promesse caricate sui mutui subprime. Il «cedimento» mostra peraltro che il mondo linguistico nel quale si radicano i derivati è afflitto da un vizio strutturale: nonostante lo sviluppo di modelli altamente tecnologizzati per la gestione del rischio – o forse proprio a causa loro – le ideologie dell’agire calcolativo hanno subito una perturbante ibridazione: «il casinò, le corse dei cavalli, la lotteria e in generale il gioco d’azzardo hanno fatto irruzione nel mondo del calcolo finanziario, e viceversa, cancellando i confini tra la sfera del caso e la sfera del rischio». Cacciata dalla porta in nome del calcolo probabilistico, una quota di incertezza ritorna nell’economia finanziaria dalla finestra dei prodotti derivati e nella vita quotidiana dal tempio della dea bendata.

Ed ecco che è in agguato il fallimento. Ad esso si intitola l’ultimo lavoro di Arjun Appadurai, scritto a quattro mani con la giovanissima studiosa dei media Neta Alexander: Fallimento (traduzione di Francesco Peri, Raffaello Cortina, pp. 129, € 16,00), dato alle stampe prima che il globalcovid conquistasse il ruolo di protagonista nelle nostre vite; ma il pacchetto di concetti che utilizza – rischio, incertezza, promessa, debito – forgiato in studi sulla condizione globale che hanno fatto data, potrebbe calzargli a pennello. Il fallimento che Appadurai prende in esame non è un episodio accidentale e circoscritto bensì un giudizio che ha cambiato di segno e tende oggi a ridescrivere l’intera gamma delle failures – dai guasti tecnologici ai tracolli finanziari – come valori da incoraggiare e coltivare. Risemantizzato come virtù, il fallimento si rivela strumento strategico del capitalismo finanziarizzato e anche dispositivo in grado di immetterci nella sua scatola nera. Appadurai ripropone qui l’impianto argomentativo affilato nel suo dittico più impegnativo – Il futuro come fatto culturale e Scommettere sulle parole (entrambi di Cortina).

La scoperta della funzione decisiva svolta dal linguaggio nei mercati finanziari trova tra queste pagine una ulteriore portata esplicativa: mostra come siano capaci di generare profitto senza passare dalla produzione di merci, quasi per una ‘magia’. Il carattere performativo si manifesta infatti in procedure coattive e divinatorie come una pratica di tipo magico e così opera appunto nei mercati finanziari: lungi dall’essere spazi eleganti dove la domanda e l’offerta si incontrano e si misurano, i mercati agiscono come dei sistemi ritualistici, la cui «efficacia magica» è assicurata da atti linguistici in contesti specifici.

Resta da comprendere come il portato di rischio e incertezza diventi ethos, si innesti cioè nell’habitus delle vite ordinarie come un orizzonte valoriale condiviso. Il dispositivo del fallimento ne risulta uno dei vettori più pervasivi. Basta guardare a come le promesse disattese siano in funzione anche in campo tecnologico, assicurando un accesso illimitato e ininterrotto all’informazione o una vita agiata e agevolata. Per farne risaltare il carattere chimerico – ideologico si sarebbe detto un tempo – il libro procede a una minuziosa mappatura delle forme di tecno-disfunzione abituale: buffering, latenza digitale, blocco del sistema operativo, batterie che si scaricano.

Possibilità vs probabilità
La loro ragion d’essere non consiste solo nel modello di business fondato sulla monetizzazione dell’attesa, il ricambio veloce dei prodotti e l’obsolescenza programmata (fallisci presto, fallisci spesso), ma anche e forse soprattutto nel dispositivo che ancora il tecno-fallimento nell’esperienza ordinaria, addestrandoci a dimenticarlo subito e preparandoci a una recettività tendenzialmente illimitata. Senza la normalizzazione del fallimento – questa la tesi – sarebbe inconcepibile la nostra crescente disponibilità al debito, di cui gli orchi finanziari sono consumatori senza fondo.
Come si può contrastare questo dispositivo che fa di noi degli «operai del debito» e ne distribuisce in modo ineguale l’estrazione di valore? Meno facile di quel che sembra, poiché non si può semplicemente chiamarsi fuori. Gli autori suggeriscono di iscriversi all’etica della possibilità, aperta all’immaginazione e alla speranza, e non all’etica della probabilità, che anima i fallimentari regimi del rischio.