Le grandi rivoluzioni i ragazzi le studiano a scuola. E in genere si riferiscono a eventi di un passato prossimo o remoto. Ma comunque passato. Nel caso della net-generation (coloro che sono nati a partire dal 1995, i cosiddetti «nativi digitali»), invece, possiamo parlare di una generazione che si trova a viverla, una grande rivoluzione. Il problema, semmai, è capire se e quanto ne sono esclusivamente protagonisti autonomi e consapevoli, o se invece recitano il ruolo strumentale di mezzi per fini che sono quelli della tecnica e dell’economia, le due divinità che hanno trasvalutato tutti i valori nel passaggio dalla società industriale a quella in rete.

Il dubbio, che poi è qualcosa più di un dubbio, è che con la società in rete ci si trovi nel bel mezzo di una «gabbia d’acciaio» la cui razionalità interna consiste, paradossalmente, in un processo «misologico» volto a produrre il controllo delle menti, dopo quello dei corpi, di coloro che la abitano.

«Misologia» (contro la ragione), è un termine che non per caso usava Pasolini volendo connotare il fondamento ontologico della televisione. Quello stesso intellettuale italiano che si era spinto a parlare di una «mutazione antropologica» operata dall’economia nel produrre individui omologati e proni ai diktat e ai valori del mercato.

L’alleanza che oggigiorno si è verificata proprio fra l’economia e le nuove tecnologie mediatiche, sembra aver sintetizzato i due momenti, conducendoci perfettamente dentro alla realizzazione compiuta della «società dello spettacolo», profeticamente intuita, soltanto in parte, da Debord.

Il dominio spettacolare, sapientemente diretto dall’economia, può realizzarsi compiutamente attraverso la conquista di quel terreno ancora parzialmente libero che è la mente umana. Terreno più agevolmente conquistabile proprio andando a colpire l’antagonista principale: la scuola. Non soltanto tagliando drasticamente i fondi e impoverendola in tutte le sue componenti, come da politiche sciagurate di questi decenni liberisti, ma anche creando un «insegnante» alternativo e suadente, la Rete, che incanta i giovani e giovanissimi promettendogli un mondo da favola in cambio del loro tornare ad essere, o restare, burattini (paradosso di Pinocchio).

Non si tratta di essere reazionari, o negare le evidenti potenzialità di questo nuovo e straordinario strumento, ma di concentrarsi su quegli aspetti negativi che vanno a colpire soprattutto la popolazione in età scolare. Non v’è dubbio sul fatto che la Rete metta a disposizione una mole sterminata di informazioni, tanto che gli esperti di nuovi media hanno parlato di «opulenza informativa». Ma criteri e modalità con cui queste informazioni vengono veicolate sono per lo più quelli della «velocità», «superficialità» e «estrema sintesi» dei contenuti scritti, in un contesto in cui la mente dell’utente non riesce a immagazzinare (e quindi elaborare) l’eccessiva mole di informazioni, né ad approfondire e quindi pervenire a una cognizione autonoma dell’argomento in questione.
All’opulenza informativa, di fatto, segue un’indigenza conoscitiva tipica di una dimensione in cui siamo informati su tutto ma non conosciamo veramente nulla. Del resto già Platone, nel VII capitolo della Repubblica, ci aveva insegnato che le cause che conducono gli occhi a non vedere sono sostanzialmente due: il buio, certo, ma anche l’eccesso di luce.
Si tratta, in fondo, di quel «metodo odierno» del potere già intuito da Gunther Anders, che impedisce la comprensione non più censurando le notizie ai cittadini, ma fornendogliene una quantità infinita, sapendo bene che il tutto è paurosamente confinante con il nulla. Notizie infinite, velocissime, superficiali e sempre più sintetiche ci mettono nella condizione per cui «veniamo sopraffatti da una tale abbondanza di alberi affinché ci venga impedito di vedere la foresta», privandoci della possibilità di conseguire quella visione d’insieme che già per Hegel rappresentava una dote necessaria nel cammino della coscienza.
Significativamente, è stato un allievo di McLuhan, De Kerchove, a spiegare come i nuovi media siano in grado di incidere sulle capacità cognitive, producendo nell’uomo un «brainframe televisivo e cibernetico» caratterizzato dalla capacità di «intuire» le informazioni attraverso delle immagini che scorrono sullo schermo con grande velocità, ma riducendo ai minimi termini la possibilità di riflettere e rielaborare le singole parti del contenuto. Il brainframe cibernetico, in particolare, sposta il fuoco dell’attenzione sul solo presente (un eterno presente), lasciando sullo sfondo passato e futuro e, in generale, impedendo quella visione e comprensione prospettica delle cose e degli eventi che, privati dei nessi causali, risultano asettici e impossibili da interpretare.
Le neuroscienze hanno confermato queste teorie, spingendosi a parlare di «enorme riconfigurazione» del cervello da parte delle nuove tecnologie (il neuroscienziato americano Michael Merzenich), nonché di «alterazione rapida e profonda delle nostre menti» (lo psichiatra Gary Small). È persino superfluo dedurre che tali effetti possono colpire maggiormente proprio la net-generation, sempre più abituata all’impoverimento lessicale e grammaticale del linguaggio in Rete («riduzionismo stenografico»), ma anche a non «digerire» contenuti scritti che superino un certo numero di righe (assai poche).
Se a tutto ciò aggiungiamo il dato secondo cui il cervello umano è plastico ma non elastico, ossia che esso si lascia modificare dai processi abitudinari secondo cui agisce, ma senza la possibilità di ritornare alle capacità proprie della dotazione originaria, possiamo cogliere il senso profondo di una mutazione antropologica che, in quanto tale, non può giustificare giudizi netti ma neppure consentire una latitanza dell’analisi critica.
C’è da chiedersi, piuttosto, quanto tutto ciò, in un’epoca in cui l’economia domina sulla politica e in genere sul mondo umano, possa essere governato da un potere mai così pervasivo che, contemporaneamente, ama nascondersi. È grazie alla straordinaria evoluzione delle tecnologie mediatiche che questo potere è detenuto da chi «conosce le intenzioni altrui ma non lascia conoscere le proprie», alla stregua di un dio «che è onnipotente proprio perché è l’onniveggente invisibile», per richiamare le riflessioni di Elias Canetti.
Se democrazia è quella dimensione in cui cittadini informati, critici e impegnati nel sociale, svolgono una funzione di controllo e messa in discussione dell’operato dei governanti, è opportuno chiedersi quanto un dio così suadente e «divertente», ma al tempo stesso disimpegnante, banalizzante e superficiale come quello della società dello spettacolo compiuta, possa irretire soprattutto giovani e giovanissimi. A difesa dei quali è rimasta solo una scuola sempre più martoriata che, per esempio, a fronte di un calo significativo degli abbandoni scolastici, si trova a fare i conti nel nostro paese con un incremento quanto mai preoccupante di alunni con scarsa capacità di lettura
Il timore è che la fabbrica dei burattini stia lavorando a pieno ritmo.