Due uomini con la maglietta del Boca piangono sconsolati, ma sembrano avere la forza per abbracciare un terzo che indossa la maglietta del River e che quasi non sta in piedi. Per un istante, Diego unisce ciò che a Buenos Aires è normalmente diviso. Nel giorno del suo addio c’è spazio per tutte le bandiere, tutte le età, tutto il popolo.

LA CASA ROSADA HA APERTO le sue porte alle 6 della mattina di giovedì. Le persone erano in attesa davanti alla casa del governo, in Plaza de Mayo, già dalla notte precedente. «Adoro il calcio. A 14 anni andai all’Obelisco a divertirmi, a festeggiare la gloria. Ci ha portato la Coppa dopo quello che avevamo visto nell’82, quando ci hanno rubato le Malvinas. Sai quanto è stato gratificante?», dice Estela prima di iniziare a piangere. Ha 49 anni, è tifosa del River ed è su una sedia a rotelle, spinta da sua figlia e fa due nipotine.
Otto anni Estela fa stava andando a lavorare come venditrice in un mercato, dal quartiere popolare di Bajo Flores prese il treno che rimase coinvolto nella tragedia di Once, dove morirono 51 persone e centinaia rimasero ferite. Tra le lacrime e con la voce spezzata dice: «È stato il meglio che ho vissuto, Diego. Non ne avremo un altro e non ho potuto dirgli addio. Volevo dirgli grazie, eternamente grazie».

INCALCOLABILE LA MOLTITUDINE di persone che si è riversata nelle strade di Buenos Aires dal momento in cui è stata data la notizia, e siccome la famiglia di Maradona aveva disposto che la veglia funebre si sarebbe dovuta concludere alle 16 di giovedì – salvo poi estenderla di un paio d’ore – molti hanno iniziato a disperarsi quando hanno capito che non avrebbero potuto dare l’ultimo saluto. Alle prime tensioni la polizia ha risposto con proiettili di gomma e gas lacrimogeni. A quel punto molti hanno rotto i cordoni di sicurezza, finendo nei cortili interni della casa del governo.

«DIEGO È IL PIÙ GRANDE che c’è. È tutto, è parte della mia vita. Domani faccio 44 anni e nel mondiale dell’86 non ne avevo ancora compiuti 10. Lo vidi con mio padre e questo non lo dimenticherò mai», dice Martín mentre mostra i suoi tatuaggi con lo stemma del Boca e il nome “Diego”, che è anche il nome di uno dei suoi figli. «Non siamo riusciti a entrare, anche se eravamo lì davanti. Quando la situazione s’è fatta difficile siamo andati via». Il figlio ventenne riesce a malapena a scostare la maglietta per mostrare la firma di Diego tatuata sul petto. Non riesce a parlare e ha gli occhi rossi. «Ho detto a mio figlio che Diego lo sa che ci siamo, che lo ameremo per sempre e lo ricorderemo ancora più a lungo», conclude Martín mentre allontana un ubriaco che barcolla al suo fianco con una scatola di vino in cartone tra le mani, e al contempo afferra un choripán (panino con la salsiccia) che gli passa un parrillero appostato in piena Avenida de Mayo.

 

foto di Gianluigi Gurgigno

 

«Diego è il popolo perché ha portato la nostra bandiera e l’ha amata tanto», dice Ever seduto al bordo del marciapiede, con occhiali scuri e una bandiera argentina sulle spalle. Ha 38 anni, è personal trainer e dice di aver visto poco Maradona, ma che in famiglia l’amore per Diego era condiviso. «Da tifoso del Rojo (Club Independiente, ndr) sono andato a vederlo dalla curva del Boca, ed è stato tosto per me metterci piede».

A QUALCHE METRO camminano passandosi un bebè tra le braccia Pamela e Mariano, hanno 22 anni e vengono dal Conurbano a dire addio «al miglior giocatore del mondo». Nella stessa scena appare “El Grillo” mentre alza un bicchiere di plastica. Sidra? «No, champagne», risponde. Ha 38 anni ed è in Plaza de Mayo da mercoledì notte. «Gli voglio bene e voglio che riposi in pace. Ho versato un fiume di lacrime ma adesso non voglio più piangere», dice mentre si allontana. Continuano la chiacchierata i suoi amici di 22 e 26 anni. Uno chiama Maradona «comandante» dicendo che «è stata la cosa migliore successa all’Argentina»; l’altro parla del modo in cui è riuscito a piantarsi di fronte al potere» e cita a memoria Victor Hugo Morales, il telecronista del gol del secolo, che disse di Diego: »Non chiedetemi di misurarlo con lo stesso metro dei comuni mortali perché gli sono in debito di due gol all’Inghilterra e il mio unico modo per ringraziarlo è lasciarlo in pace con le sue cose».

CON UN POSTER DELL’IDOLO in mano, di quelli che una signora sdentata vende a 100 pesos gridando in mezzo alla strada, Eric, 35 anni, look indie, dice di aver giocato a calcio ma che ormai quasi non lo segue più. Non vuole parlare, sostiene che la sua testimonianza non servirebbe: «È un cumulo di sensazioni che non so spiegare, è tristezza e allo stesso tempo allegria e nostalgia. È qualcosa di brutto», dice prima che gli si spezzi la voce. Ricorda il ritorno dell’astro al Newell’s (la squadra di Rosario, ndr): «Andai allo stadio con mio padre, che è mancato quest’anno ed era molto emotivo, mi compró la maglietta… Ho avuto la fortuna di vederlo giocare».

Diego è stato spesso sintesi di posizioni contrastanti; il ragazzino cresciuto in una villa e quello dei contratti milionari negli Emirati; quello che abbracciò l’ex presidente neoliberista Carlos Menem e quello che aveva il “Che” tatuato sulla pelle. Tutti possono identificarsi, è questo che lo rende unico.

 

foto di Gianluigi Gurgigno

traduzione di Gianluigi Gurgigno