L’occupazione della tipografia Apollon in pieno ‘68, sulla Tiburtina, a Roma, fabbrica che impiegava più di 400 lavoratori pretestuosamente condannata alla chiusura, catturò l’attenzione di diversi cineasti dell’epoca, desiderosi di partecipare e in qualche misura farsi interpreti delle lotte operaie che animavano la scena politica di allora. Ma dei tanti che vi ci sono affacciati, solo il recentemente scomparso Ugo Gregoretti è riuscito a farsi portavoce di quelle tensioni. Comprendendo, da un lato, le reali esigenze dei lavoratori, che erano quelle di conservare il posto e non di «fare la rivoluzione» in nome di alti ideali, e trovando, dall’altro, la chiave per una messa in scena che coniugava militanza e emozioni, come in una sorta di particolare «commedia all’italiana del reale».

Nasce su questi presupposti Apollon: una fabbrica occupata, partecipata cronaca delle vertenze che hanno agitato il ‘68 romano, seguito a breve distanza da Contratto, testimonianza del clima delle masse lavoratrici e delle corporazioni sindacali durante l’autunno caldo del 1969, preziosi tasselli della storia del nostro Paese e del nostro cinema, inseriti entrambi in un dvd realizzato dalla Shockproof all’interno della collana Forum Italia curata da Massimo Causo, Davide Di Giorgio e Silvio Grasselli – i due film sono stati conservati e digitalizzati dall’Archivio del Movimento Operaio e Democratico.

UNA DELLE ragioni per cui le vicende dell’Apollon solleticavano la curiosità non solo dei cineasti, ma anche degli esponenti del movimento studentesco e dei leader dell’ultra sinistra, era la sua unicità, data dal fatto che per ragioni di sicurezza e di conservazione dei beni storici della capitale, era stabilito che Roma, a differenza ad esempio di Parigi, non dovesse avere una «cintura rossa».
Le fabbriche si trovavano nel nord Italia, ed era qui che bisognava andare se si volevano fotografare la classe operaia, i movimenti sindacali, le lotte, mentre a Roma apparteneva un sottoproletariato urbano di derivazione contadina. Le vertenze dell’Apollon, quindi, rappresentavano quindi un «casus» che difficilmente poteva passare inosservato agli occhi del collettivo Cinegionali liberi promosso da Cesare Zavattini. Ma accadde che alle assemblee organizzate nella mensa della fabbrica nacquero alcune insormontabili incomprensioni tra cineasti e operai: propensi, i primi, per una «linea di lotta» radicale, con la velleitaria e vagamente arrogante proposta di uscire dai cancelli e bloccare le strade, mentre i lavoratori, più pragmatici, obiettarono che un’azione come quella, per quanto eclatante, avrebbe avuto come unico effetto quello di condannarli alla prigione, con il conseguente fallimento dell’occupazione.

C’ERA INOLTRE una questione teorica: da parte dei cineasti vi era infatti la volontà, anche questa di natura ideologica, di liberarsi della macchina da presa in quanto simbolo di supremazia, strumento di dominio capitalistico della classe degli intellettuali nei confronti del proletariato. E si arrivò vicini alla rottura, perché gli operai non erano in grado di utilizzare il mezzo cinematografico né intendevano farlo, e, dimostrando buon senso, chiesero ai cineasti di mettersi a servizio della lotta nel rispetto della linea da loro dettata, ossia quella dell’occupazione. Il compito di raccontare i fatti fu affidato a Gregoretti, con il quale furono presto stabiliti alcuni principi (anche estetici). Si decise di raccontare ciò che era successo nei mesi e negli anni precedenti all’occupazione, in modo da fornire allo spettatore degli elementi di valutazione del presente e si optò quindi per la costruzione di un canovaccio, una sorta di copione generico.C’erano a disposizione i capannoni, utilizzati come teatri di posa, ma le risorse più importanti erano quelle umane, gli operai, che sarebbero diventati attori, comparse e figuranti nella più pura tradizione neorealista (più impegnativo trovare volti adatti al ruolo dei «padroni», affidati ad alcuni compagni dirigenti del Pci tra quelli con l’aria più borghese, o dei poliziotti, di cui nessuno voleva vestire le divise).

IN UN CURIOSO mix di cinema impegnato e d’autore, venato di humour e di fede politica, commentato dalla voice over di Gian Maria Volonté e le note acide del free-jazz, si ricostruiscono diversi episodi dell’emblematica vicenda: dalla gestione paternalistica dell’avvocato Borgognoni, padrone di turno con l’obiettivo di far fallire una florida azienda per portarla alla chiusura, alle accese assemblee interne, durante le quali per poco non si veniva alle mani, o l’addobbo dell’albero di Natale, dove al posto dei gingilli pendevano scarpe, utensili e scatole di pelati. Apollon: una fabbrica occupata non ricevette il favore della critica, in particolare vi si schierò contro quella più radicale.
Ma le proiezioni nelle fabbriche di tutta Italia, negli ospedali e nelle piazze, suscitavano emozione e scatenavano una partecipazione che consentì, attraverso generosi atti di solidarietà spontanea, collette e sottoscrizioni, di proseguire l’occupazione per almeno tre o quattro mesi. Ciò che Godard direbbe non fare«“cinema politico», ma «fare cinema in modo politico».