L’Irlanda è da sempre terra di navigatori. «L’isola dei santi e dei savi» è stata chiamata, e alcuni di quei santi erano pure esploratori. Come ad esempio Saint Brendan di Clonfert, noto da noi come Brandano il navigatore. Nato alla fine del quinto secolo dC., secondo tradizione compì lunghi viaggi per mare fino a toccare le isole Ebridi.

Un’opera tarda, la Navigatio Sancti Brendani Abbatis, composta attorno al decimo secolo, racconta persino di un suo viaggio verso la «terra promessa dei santi» a bordo di un currach: una barca leggera ricoperta di pelli bovine e unta con grasso animale, che veniva usata nell’ovest d’Irlanda dai pescatori. Probabilmente, la terra promessa dei santi sono le isole Canarie: un viaggio piuttosto lungo per un’imbarcazione di fortuna, e senza incorrere in naufragi.

NEI SECOLI A VENIRE, si credeva esistesse nell’Atlantico una fantomatica isola che da lui prendeva il nome, Saint Brendan’s Isle. Ai tempo di Cristoforo Colombo compariva in diverse mappe, e si diceva fosse stata avvistata dagli abitanti delle Azzorre.

A bordo dei currach, però, non pochi morivano tra le enormi onde dell’oceano. Nelle isole Aran, a ovest di Galway, nell’Irlanda occidentale, si narrano tante storie di simili naufragi minimi. Pescatori i cui corpi, se mai un giorno affioravano, sfigurati e gonfi, erano difficili da identificare. L’unico modo per risalire all’identità era guardare al tipo di trama e ordito degli indumenti in lana che i cadaveri indossavano.

I morti, però, restano tuttora ad abitare i fondali marini. Come «i due Conneeley» perduti, nella meravigliosa ballata di Christy Moore: «Perlustrano il mare pregando in silenzio / Alla ricerca dei loro vicini… / Portano le alghe su in collina / Piantano le patate nei solchi / Cercano di comprendere il volere di Dio / E la fine dei due Conneeley».

I naufragi avvenuti attorno all’isola d’Irlanda, secondo le stime più moderne, sono all’incirca diciottomila. Esistono diversi siti, come la Geological Survey o la sezione denominata Underwater archaeology del National Monuments Service che mostrano mappe dei mari irlandesi in cui ogni naufragio è segnalato da un puntino rosso. È possibile cliccare su ognuno di loro per ottenere le relative informazioni. L’insieme di tutti i puntini, in alcune zone, letteralmente nasconde il blu delle acque marine.

La maggior parte dei naufragi si concentra nelle coste orientali, meridionali e settentrionali, mentre nell’ovest, verso l’America, le segnalazioni gradualmente si diradano, sebbene ve ne siano stati di storici.
Come quello nel 1588 che coinvolse l’Invincibile Armata, nota col nome di Spanish Armada nel mondo inglese. Circa ventiquattro navi s’infransero tra le onde contro gli scogli, lungo una fascia costiera di circa cinquecento chilometri dal nord al sud dell’isola.

Quasi tutti i sopravvissuti furono giustiziati dagli inglesi. Alcuni, i più fortunati, veleggiarono verso la Scozia, e altri, ancor più baciati dalla buona sorte, riuscirono a mescolarsi alla popolazione irlandese. Di qui, si dice, il misto di occhi azzurri, carnagione olivastra e capelli nerissimi che spesso s’incontra nella gente dell’ovest.
Diversi secoli dopo, a ridosso della Prima guerra mondiale, un altro naufragio storico, quello del transatlantico britannico Lusitania, salpato da new York il 1 maggio del 1915, con a bordo tanti cittadini statunitensi, ma anche molte cassette di granate. Incrociò, nei pressi di Kinsale, a sud dell’isola, il sommergibile tedesco U-20, che intanto era sceso lungo la costa occidentale dell’Irlanda.

QUESTO LANCIÒ un siluro che nel giro di pochi minuti fece inclinare pericolosamente la nave sul lato destro, facendole imbarcare acqua al ritmo di tre tonnellate al minuto. Molte delle scialuppe di salvataggio si schiantarono contro le fiancate della nave, e poche furono calate con successo.
Il Lusitania affondò in 18 minuti, e soltanto sei delle quarantotto scialuppe approdarono al porto di Queenstown. Il mare di Kinsale fu un tappeto di morti e detriti. Si contarono milleduecento vittime.

LE COSTE DI DUBLINO non sono da meno in quanto a tragedie marine. Come quella della Tayleur, orgoglio della compagnia britannica White Star Line, la stessa del Titanic. Partita da Liverpool con direzione Australia, era piena di persone in cerca di fortuna e di una nuova vita. Avvolta nella nebbia, al largo di Dublino, virò a ovest anziché a Sud, e fu troppo tardi quando il comandante avvistò gli scogli di Lambay Island, un isolotto a nord della capitale. Il 19 gennaio del 1854 la nave di Sua Maestà, il Tayleur, colò a picco portando con sé nei fondali circa la metà dei seicentocinquanta, tra passeggeri ed equipaggio, che erano a bordo.

Il governo irlandese sta investendo molto, di recente, per scandagliare i fondali e reperire immagini dei resti di tutte le navi che hanno trovato la fine nei mari che lambiscono l’isola. Uno degli strumenti più utili è il «Wreck Viewer», inaugurato nel 2018, tramite cui è possibile reperire le informazioni disponibili su migliaia di naufragi a partire dal sedicesimo secolo fino a qualche anno fa. Informazioni riguardanti il nome delle navi, l’anno della disgrazia, e le presunte cause dell’affondamento.

MA È IL GOVERNO STESSO a dichiarare che la gran parte dei casi sono ancora avvolti nel mistero. Sono infatti tremilacinquecento i naufragi mappati, e ne mancano all’appello quasi quindicimila.
Tra quelli di cui si sa di più, anche grazie a una missione iniziata nel 2011 e incaricata di recuperare un prezioso carico affondato, c’è il naufragio della Gairsoppa, una nave mercantile britannica in servizio nella Seconda Guerra Mondiale.

FU SILURATA da un sommergibile tedesco nel febbraio del 1941 e affondò a trecento miglia a sudovest di Galway, portando con sé l’intero equipaggio, ottantacinque persone, oltre a un carico di lingotti d’argento del valore di centocinquanta milioni di sterline.

Nel 2013 la nave statunitense Odyssey Marine Exploration è riuscita a riportare a galla circa quarantotto tonnellate d’argento, segnando così un record assoluto nella storia dei recuperi di metalli preziosi dal fondo del mare.

Le operazioni di salvataggio hanno il merito di aver reso disponibile anche tanto materiale fotografico affascinante che fa spesso assomigliare i fondali marini a campi di battaglia sotterranei.
Qualcosa che è avvenuto anche con le operazioni di recupero di un altro relitto, quello della petroliera britannica Empire Heritage, che trasportava sedicimila tonnellate di petrolio ma anche molti carrarmati e camion.

L’8 settembre del 1944, un sommergibile tedesco lanciò due siluri contro l’imbarcazione, che si trovava a nord nordest di Tory Island, a dodici chilometri al largo delle coste settentrionali del Donegal. Entrambi colpirono l’Empire Heritage, che attorno alle sette del mattino affondò.

ANDÒ IN SUO SOCCORSO la Pinto, anch’essa però colpita da un siluro dopo aver salvato alcuni superstiti. In tutto le vittime furono centoquattordici. Ancora oggi, esperti sub o audaci turisti possono sperimentare la vista, a settanta metri di profondità al largo di Malin Head, di un fondale marino post-apocalittico pieno di carrarmati capovolti tra le acque torbide.

Centinaia e centinaia sono ancora le imbarcazioni che tuttora riposano al largo dei mari d’Irlanda. E con quelle le ombre dei passeggeri e dei membri degli equipaggi, a popolare e infestare fondali che soli sanno dargli un cruento ed eterno riposo.

«Il mondo intero è un vasto cimitero», disse nell’ottocento, dal pulpito di St Peter’s Church a Dublino, il reverendo irlandese Maturin, un prozio di Oscar Wilde. Ma a ben guardare, lo sono anche i mari, e non fanno eccezione quelli attorno alle coste dell’isola di smeraldo: un’isola come tante, e come tante, avvolta e protetta da acque amare.