In un passo dell’esilarante quanto dolente autobiografia The Naked Civil Servant, l’umorista Quentin Crisp, ricorda i suoi diciotto anni nella Londra di fine anni Venti: «Vivevo in un mondo che si affannava a cercare un’arma con cui sterminare una mostruosità dalla forma e taglia sconosciute e insospettate. Pare fosse d’origine greca, meno dilagante del socialismo ma più pericolosa, specialmente per i bambini». Che la leggerezza dei toni e la cura del trucco con cui si faceva ritrarre in foto non ci ingannino, anzi, ci aiutino a capire quanto coraggio ebbe quel giovane effeminato classe 1908 nel vivere orgogliosamente la propria «mostruosità».

Crisp si riferiva così al «peccato senza nome» cioè all’omosessualità ma questa parola che può apparire chiara ed evidente è, proprio in virtù della sua chiarezza, inadeguata per descrivere un’esperienza dai confini variabili nel tempo e nello spazio, attraversata da sguardi e memorie in collisione. Va contestualizzata per coglierne la traiettoria cangiante, per prendere atto delle fratture che sempre ci sono tra le parole e le cose, per osservare le contraddizioni che fendono ogni epoca come fa Maya De Leo in Queer. Storia culturale della comunità Lgbt+ (Einaudi, pp. 259, euro 19) che ha significativamente fatto altre scelte lessicali per il titolo del suo libro.

SI TRATTA DI UN TESTO che si è compiuto nel quadro di un percorso d’insegnamento universitario, prima in storia di genere a Genova e poi in storia dell’omosessualità a Torino, che non corrisponde ancora a una «cattedra» ma che ha comunque portato a quest’ultima città e al suo ateneo una certa visibilità negli ultimi tre anni. Il testo è scritto con grande agilità benché sia frutto di un enorme lavoro di sintesi di taglio internazionale che riattraversa la nozione di «omosessualità» in un’ottica di storia culturale e delle mentalità sottraendola così all’«ordine della natura» per situarla nell’«ordine del tempo» partendo dal presupposto che la stessa nozione di «orientamento sessuale» ha una storia. Essa deriva, infatti, da quelle trasformazioni che investono la sessualità e i rapporti di genere in occidente a partire dal XVIII secolo allorché, mentre la Chiesa perde progressivamente parte del suo potere di influire sulle leggi (non senza i continui colpi di coda che ancora sferza), si fanno strada ansie sociali e politiche che danno luogo a nuove forme di disciplinamento delle condotte sessuali.

È allora che, spiega De Leo, prendono avvio tre processi fondamentali: «l’ancoraggio delle differenze di genere alla dimensione biologica dei corpi, la loro riconduzione a un rigido binarismo e la percezione dei comportamenti sessuali come manifestazione di una natura particolare». Con un’impostazione che guarda a La volontà di sapere di Foucault, il libro nota dunque che nel XIX secolo, l’affermarsi dello stato-nazione consolida tali processi: la popolazione viene sottoposta a forme di controllo che trovano espressione nelle «istituzioni totali» (prigioni, caserme, scuole, ospedali), nei programmi statali di medicina di massa e in progetti di igiene pubblica orientati alla crescita demografica.

LA SESSUALITÀ assume una centralità nuova per gli stati che identificano nella coppia coniugale eterosessuale la cellula di base della società assegnando a uomini e donne ambiti e ruoli separati, contrapposti e gerarchicamente ordinati. Tutto ciò che esubera da questa architettura normativa, compresa la sessualità non procreativa, viene ricondotto all’ordine dell’anormale, del patologico, del perverso, del criminale. La sessualità si configura come un «dispositivo» che cattura, orienta, determina, intercetta, modella, controlla gesti, condotte, opinioni e discorsi sull’altro e sul sé mentre la medicina è il principale regime discorsivo atto a dire la verità sulla persona: «il sodomita era un recidivo, l’omosessuale ormai è una specie» scrive Foucault citato da De Leo. I «sodomiti» e le «tribadi» che già avevano elaborato propri codici espressivi e reti di socialità fanno ormai parte di un segmento della popolazione che non condivide solo una specifica inclinazione sessuale ma anche un linguaggio e un insieme di comportamenti reprensibili perché visti come «invertiti» rispetto alla concezione normativa del genere e del sesso.

Ad essere sotto scrutinio con fini repressivi che nelle forme variano a seconda degli ordinamenti giuridici non sono dunque più solo gli atti di sodomia, ma lo stesso modo di essere e di stare al mondo. Tuttavia, non sempre patologizzazione e criminalizzazione vanno a braccetto, ci sono anche teorici di diverse discipline che pur iscrivendosi in una cornice di genere binaria e normativa, cercano di favorire l’abolizione delle leggi antisodomia: il giurista Ulrichs, il sessuologo innovatore Hirschfeld, e l’austro-ungarico Károly Mária Kertbeny tra i primi a usare il termine «omosessualità» che dopo un periodo di concorrenza con quasi-sinonimi come «uranismo», «inversione sessuale», «amore omogenico» e «similisessualismo», finisce per affermarsi nel XX secolo.
Ecco perché, quando, a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, la sessualità verrà posta al centro della scena politica per diventare oggetto di rivendicazioni da parte di nuovi soggetti politici come le donne, i gay, le lesbiche e tutte le persone fuori da ogni ordine eterosessuale, si assiste a un cambiamento che sorprende. È il caso, per esempio, dello scrittore Edmund White di cui il libro cita un ricordo risalente ai primi anni delle lotte gay: «Fino a quel momento avevamo pensato tutti che omosessualità fosse un termine medico. Improvvisamente vedemmo che potevamo essere una minoranza – con dei diritti, una cultura, degli obiettivi».

LA RIAPPROPRIAZIONE e la risignificazione dei termini discriminatori e patologizzanti con cui fino a quel momento una comunità era stata costruita in quanto tale dalla repressione diventano parte del processo di liberazione. La parola queer è questo, un insulto di cui i target si riappropriano fieramente.
Il libro è organizzato in tre parti: «Archeologia della comunità Lgbt+» che arriva fino alle soglie del Novecento; «Nascita e tramonto del closet» che affronta le dinamiche di razza, classe e genere in occidente tra i primi del Novecento e gli anni Cinquanta; «Rivoluzioni, resistenze, intersezioni» che giunge fino alle nuove frontiere della dissidenza di sesso e genere tra conflitti, percorsi di liberazione non solo omosessuale ma anche trans* e intersex, scambi tra cultura mainstream e sottoculture camp, aids e nuovi orizzonti (anti)identitari.

La parola queer viene tematizzata sin dalla Premessa come strumento che «pone l’accento sulle gerarchie, sui rapporti di forza, sulle variabili – come quelle di classe e ‘razza’ – che agiscono nei percorsi di costruzione identitaria e che, nei loro intrecci con le dimensioni del genere e della sessualità, danno luogo a intersezioni, marginalizzazioni, esclusioni». Nell’Epilogo, l’epigrafe di José Esteban Muñoz attribuisce al concetto la fisionomia di un divenire: «Il queer esiste per noi come un’aspirazione che può essere distillata dal passato e usata per immaginare il futuro».

NATO COME SGUARDO sul mondo che risponde allo sguardo del mondo, oggi il queer è il segno di un’apertura verso l’imprevisto come l’asterisco che Judith/Jack Halberstam utilizza dopo trans* per rifiutare «una configurazione definita di desiderio o identità lasciando ai soggetti lo spazio per l’autonarrazione».
La storia queer si rivela così tesa non solo a tracciare le traiettorie genealogiche accidentate del nostro sistema di genere e sessuale ma soprattutto ad «individuare e indagare, fin dal loro sorgere, i tratti delle nuove configurazioni che prenderanno – o stanno già prendendo? – il suo posto e a leggere, in essi, quelli del nuovo dispositivo normativo che le accompagnerà e che forse non si chiamerà più sessualità».