Partiti e movimenti di sinistra, dai socialisti rivoluzionari a Egitto Forte, hanno manifestato domenica al Cairo, alle porte del sindacato dei giornalisti, affinché l’esercito egiziano disponga l’apertura permanente del valico di Rafah. L’intelligence militare ha permesso negli ultimi giorni solo un’apertura a singhiozzo del confine egiziano. Sebbene solo undici feriti palestinesi, in gravi condizioni, siano giunti all’ospedale di al-Arish, per calmare le polemiche al Cairo, 500 tonnellate in aiuti sono stati inviati ieri verso Gaza. Eppure i militari continuano a giustificare la loro freddezza verso il conflitto con le misure anti-terrorismo. Otto persone sono morte e 25 sono rimaste ferite ieri in un attacco di jihadisti locali a una caserma del capoluogo del nord del Sinai. La polizia militare tiene sotto stretto controllo l’area per le azioni di gruppi radicali che hanno provocato oltre 500 morti negli ultimi mesi.

Secondo la stampa egiziana, la chiusura del valico di Rafah avrebbe fatto seguito al tentativo di far passare venti razzi attraverso i tunnel che collegano il Sinai alla Striscia. Ma la reazione egiziana ai raid israeliani su Gaza è stata lenta e tardiva. Dopo quattro giorni, il ministero degli Esteri ha condannato l’«escalation israeliana nei territori, sotto forma di un eccessivo e non necessario uso della forza». Il neo-eletto presidente, l’ex generale al-Sisi ha discusso l’ipotesi di un cessate il fuoco in una telefonata con il Segretario dell’Onu Ban Ki-moon, mentre è atteso oggi al Cairo il Segretario di Stato Usa, John Kerry. Lo scorso sabato, Sisi aveva incontrato l’inviato per il Medio oriente del Quartetto (Usa-Russia-Ue-Onu), Tony Blair, di recente assunto per una consulenza economica dalla presidenza egiziana.

In queste ore, l’intelligence militare egiziana starebbe mediando una tregua. Nel novembre 2012, in occasione dell’operazione «Pilastro di difesa», fu l’ex presidente Morsi a negoziare l’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas. La riluttanza a tenere aperto il valico di Rafah e l’impegno diretto dell’intelligence militare nei negoziati per il cessate il fuoco avvicinano l’atteggiamento di Sisi alla consolidata strategia condiscendente verso Tel Aviv dell’ex presidente Mubarak, come durante l’operazione «Piombo fuso» nel 2008. E così, in occasione dell’anniversario della guerra tra Egitto e Israele del 1973, la scorsa settimana, Sisi ha criticato la strumentalizzazione della religione per far cadere i governi dei paesi vicini. Ha aggiunto, rivolgendosi a Usa, Russia, Cina ed Europa che è in corso il tentativo di «distruggere il Medio oriente». Non solo, con la dichiarazione della Fratellanza come movimento terroristico, nel dicembre scorso, la leadership di Hamas non è mai stata così criticata dai leader politici egiziani, vicini all’esercito, tanto è vero che le migliaia di passaporti, concessi da Morsi, agli attivisti del movimento residenti in Egitto, sono stati annullati, dopo il suo arresto. L’ex presidente è stato anche accusato di spionaggio e di aver rivelato segreti di Stato ai palestinesi. Anche la promozione del dialogo nazionale e il tentativo di facilitare un governo di coalizione tra Hamas e Fatah, caldeggiato nell’anno di governo islamista e realizzatosi la scorsa primavera, non è tra le priorità dei militari egiziani.

Infine, l’Iniziativa egiziana per i diritti personali (Eipr) ha criticato la stesura di una nuova legge, duramente contestata da Human Rights Watch, che criminalizzerebbe le attività delle ong egiziane, subordinandole a stretti controlli di sicurezza.