Hillary Clinton è diventata la prima donna candidata alla presidenza degli Stati Uniti. L’annuncio “ufficiale’ è stato dato dalla Associated Press nella sera di ieri e ripreso dai maggiori organi stampa in base al conteggio dei delegati ottenuti durante le primarie ed un sondaggio dei “super delegati”, i grandi elettori designati dal partito con facoltà di formalizzare la propria preferenza nella convention di luglio.

L’annuncio dato poche ore prima dell’apertura dei seggi nelle primarie di oggi, comprese quelle in New Jersey e California, dove Bernie Sanders spera di mettere a segno un ultima vittoria contro Hillary, ha suscitato dure polemiche e le marcate proteste dello stesso Sanders che ha regolarmente criticato le procedure con cui vengono ripartiti i delegati.

Col voto di oggi in sei stati (California, New Jersey, New Mexico, Sud e Nord Dakota , Montana) rimangono tecnicamente da assegnare 851 delegati democratici.

È vero che anche senza l’annuncio dal sospetto tempismo le votazioni sarebbero state in gran parte simboliche – il che non vuole dire irrilevanti.

In particolare il risultato in California, con i suoi oltre 500 delegati in palio avrebbe un peso determinante in queste elezioni che hanno esplicitato una scissione interna nel partito democratico fra corrente istituzionale e quella progressista risvegliata da Bernie Sanders.

Nello stato più popoloso, ottava economia mondiale che demograficamente presagisce il futuro d’America, Sanders ha rimontato da una ventina di punti di svantaggio per giungere oggi alla parità statistica fotografata dai sondaggi.

Mentre Hillary conta sui segmenti ispanici e afro americani con cui la famiglia a storici legami, Sanders ha un impressionate vantaggio fra i giovani.

Gli elettori under 40 preferiscono il socialista del Vermont con un impressionante margine di 5-1. Un dato che permette  al settuagenario senatore di affermare con qualche giustificazione di rappresentare il futuro del partito.

Se Sanders dovesse effettivamente spuntarla e battere nello stato più popoloso la candidata Clinton, pur nel momento in cui viene “incoronata”, sarebbe non solo assai imbarazzante ma legittimerebbe la richiesta di aprire una vera trattativa durante la convention di luglio a Philadelphia.

Sanders potrebbe teoricamente chiedere che venisse rimessa in discussione la ripartizione dei “super delegates” assegnati dal partito  in gran maggioranza ad Hillary ed eventualmente la stessa  nomination.

Sarebbe un’anomalia ma non certo la prima di questa elezione anomala.

Al minimo una vittoria californiana rafforzerebbe la mano dei progressisti nella trattativa per il programma politico che si dovrà stilare a Philadelphia.

Sanders potrebbe insistere su istanze come un minimo salariale e l’università gratuita nella “platform” ed eventualmente partecipare alla selezione del candidato vicepresidente.

Incidere cioè con più forza sulla direzione futura del partito e se, come dice Sanders, questo debba rappresentare gli interessi di Wall Street o dei lavoratori.

Mentre la battaglia per l’anima politica dei democratici è ancora da definire, in campo repubblicano prosegue il tragitto paradossale di Donald Trump che ormai candidato in pectore sembra fare di tutto per incrinare la fragile coalizione che appoggia a malincuore la sua candidatura populista.

La sua ultima battaglia lo vede impegnato contro il magistrato che lo ha rinviato a giudizio per l’affare Trump University (corsi di vendite immobiliari che con la promessa di fabbricare miliardari hanno spremuto centinaia di migliaia di dollari a clienti ignari).

Trump ha chiesto che il giudice istruttorio venga squalificato in quanto “messicano” (è figlio di immigrati) e quindi prevenuto contro un “costruttore di muri” sul confine.