Dalla preoccupazione per una piazza Esedra mezza vuota alla partenza per corteo, alla soddisfazione per aver riempito piazza del Popolo all’arrivo. Se il Censis disegna un’Italia del «rancore» dove manca il «conflitto sociale», la Cgil ieri ha dimostrato di essere l’unica istituzione che incanala entrambi nella partecipazione e riesce ancora a riempire le strade disertate dai partiti e dai leoni da tastiera del web.
La manifestazione di Roma teneva insieme «gli sconfitti dalla crisi» sul tema più sentito: le pensioni. Le generazioni si incrociavano e, se è vero che la gran parte dei presenti era over 50, quarantenni, trentenni e perfino tanti ventenni non erano mosche bianche nel lungo serpentone che ha percorso l’ormai usuale tracciato che da via Barberini e via Sistina arriva sopra il Pincio per scendere a piazza del Popolo.
Le storie si inseguono, ognuna con le proprie peculiarità ma tutte confermano che quanto Cisl e Uil rivendicano come «un buon risultato» non aiuta che pochissimi: per la stragrande maggioranza dei lavoratori, a prescindere dall’età, la pensione rimane un miraggio.
C’È CHI È «SULL’ORLO della disperazione», come i tanti lavoratori edili che non riescono ad entrare nell’Ape social. Lino ha 59 anni e sotto i baffi cova tanta rabbia. Lui è un nuovo esodato, senza lavoro e senza pensione. «Ho 59 anni e 37 di contributi, divisi fra cantiere e portierato. Da l’Aquila sono venuto a Roma. Ero contento perché facendo il portiere mi avevano dato anche la casa. Poi mia moglie è morta e tutto è diventato più difficile. Crescere due figli, avevano 9 e 14 anni quando se n’è andata, è stata dura ma ora entrambi studiano. Nel 2014 però il condominio ha deciso di affittare l’appartamento e mi hanno licenziato». Da quel giorno è iniziato il suo «incubo». «Alla mia età chi vuoi che mi prenda a lavorare?», spiega arrabbiato. «Sono riuscito ad avere un anno di disoccupazione, ma da due anni vado avanti non so come». I paletti messi dal governo e dall’Inps per scremare le domande sono tutti contro di lui. I 36 anni di contributi ci sarebbero, «ma alcuni anni di contributi mi sono stati mangiati perché ne ho tre con la disoccupazione speciale d’inverno che veniva data in Abruzzo senza pagare i contributi». Il vero problema sono l’età – ne servono 63 per fare domanda – il requisito della «mansione gravosa» – 6 anni negli ultimi 7 di lavoro – che Lino non ha certamente visto che ha fatto il portiere e non l’edile. «Se va bene la mia prospettiva è rimanere almeno 4 anni ancora così. Ma così io non ce la faccio», conclude quasi urlando prima di rimettersi in cammino.
DA DUE GIORNI ANCHE CONCETTA rischia di avere un futuro simile. Lei è una delle pochissime donne che lavoravano all’Ideal Standard di Roccasecca nel frusinate dove si producono rubinetti, sanitari e accessori per il bagno per la multinazionale americana leader nel settore. «Giovedì c’è arrivata una telefonata. Senza preavviso alcuno ci hanno detto che la fabbrica chiudeva perché vogliono spostare il lavoro all’estero». Per 500 famiglie in una zona già martoriata dalle chiusure – Videocon di Anagni ad esempio – è iniziato il dramma. «Facciamo ancora fatica a crederci: fino al giorno prima ci chiedevano lo straordinario, avevamo fin troppo lavoro e adesso ci chiudono all’improvviso», racconta. «Io ho 40 anni, un figlio di 20 anni e una figlia di 15. Senza il mio stipendio non possiamo farli studiare», spiega commossa. Da Roccasecca ieri mattina è partita all’alba nel pullman organizzato dalla Filctem. «Siamo qua anche perché la pensione per noi è un miraggio. Io lavoro a Ideal Standard da 10 anni dopo anni di precariato tra Autogrill e tanti altri lavori trovati con l’agenzia interinale. Non so neanche quanti contributi mi hanno versato. Mi sentivo fortunata fino a giovedì, ora non so neanche immaginare quale può essere il mio futuro».
LE DONNE CON FIGLI sono le grandi escluse dagli interventi previsti nella legge di bilancio. Pur con i miglioramenti apportati a palazzo Chigi il lavoro di cura non è per nulla riconosciuto a fini previdenziali. L’unica concessione – in realtà non ancora presente nel testo licenziato dal Senato – è quella all’interno dell’Ape social. Alle madri dovrebbero – il condizionale è d’obbligo – venire riconosciuti un anno di sconto per figlio con un massimo di due. Ancora una volta però vengono escluse tutte le persone che non rientrano nelle 15 categorie dei lavori gravosi. Prendendo per buone – e buone non sono mai state – le stime del governo, circa il 90 per cento dei pensionandi.
Non va meglio alle le madri più giovani: fanno «i salti mortali fra lavoro e cura dei figli» e per loro «la conciliazione dei tempi di vita» non esiste. Simona ha 43 anni e fa la commessa a Zara: «Con il turno dalle 13 alle 22, che ci impongono spesso anche a noi fortunate con un contratto a tempo indeterminato, io torno a casa alle 23. Per fortuna c’è mio marito perché una baby sitter con 1.200 euro al mese non ce la possiamo permettere», spiega. Alla pensione «ci pensa eccome perché so che a 55 anni a fare la commessa non mi faranno più stare e quindi già penso a quale altra mansione potrò avere fino ai 70 anni», sorride amara.
MARTA, CHE DI ANNI NE HA 34, «ad un figlio non ci pensa neanche». Lei lavora ad Eataly e «dopo tre anni fra apprendistato e precariato» ha un tempo indeterminato. È diventata delegata sindacale della Filcams Cgil e passa il tempo «a cercare di spiegare ai ragazzi arrivati dopo di me che non devono aver paura a far valere i loro diritti. Tutti loro, e molti dei miei colleghi, sono convinti che la pensione non l’avranno mai. Sono in piazza per dimostrare che si sbagliano: vogliamo lottare per avere una pensione di garanzia per i giovani», chiude Chiara.
ANDREA INVECE HA 31 ANNI, lavora dal 2005 e per questo è uno dei pochi ad aver ricevuto nel 2015 la famosa busta arancione dell’Inps. «L’importo non era neanche male perché è calcolato con una crescita dell’1,5 per cento annuo. Ma quello che impressionava era l’età di pensionamento: se non mi ricordo male era 77 anni».