Ha vinto un trofeo Chopard a Cannes e il premio «rising star» del BAFTA, ma più che giovane promessa ormai Anya Taylor-Joy è una star a tutti gli effetti, fra i nuovi volti più universalmente conosciuti dopo l’exploit planetario di Regina degli schacchi. Non male per una carriera di appena sei anni iniziata con l’esordio propiziatorio in The Witch di David Eggers, poi le collaborazioni con M. Night Shyamalan in Split e Glass, il successo indie al Sundance con la commedia dark Thoroughbreds (con il compianto Anton Yelchin). Sul piccolo schermo ha fatto Peaky Blinders per la BBC e per Netflix Dark Crystal: age of resistence. Poi, sempre con il gigante streaming, Regina degli scacchi che la lancia definitivamente verso la fama mondiale come l’orfana/bambina prodigio che raggiunge il rango di gran maestro di scacchi sullo sfondo una travagliata storia di privazione affettiva e assuefazione.

Un’eroina dallo straordinario magnetismo in un progetto rimasto in sviluppo per molti anni passando anche per le mani di Michael Apted e nientemeno che Bernardo Bertolucci. A un certo punto doveva essere una prima regia di Heath Ledger che per protagonista avrebbe voluto Elliot (Ellen) Page. Infine il trionfo con Taylor-Joy (classe 1996) attrice anglo-argentina nata in Florida che è destinata a lasciare ancora il segno in Mad Max: Furiosa, New Mutants nonché due nuove collaborazioni con Eggers (Lighthouse) – la saga vichinga Northman e un remake di Nosferatu. Abbiamo parlato con lei via zoom

Come ha vissuto i mesi del lockdown?
Non voglio dire di essere grata alla pandemia, ma da quando ho fatto il mio primo film non ho smesso di lavorare. È stata una traiettoria fantastica ma quelle esperienze le ho dovute mettere vie senza avere il tempo per riflettere su quello che avevo imparato. Le prime settimane del lockdown sono state intense perché di colpo ho avuto il tempo di fare il punto su tutto quello che avevo fatto. È stata l’occasione per assorbire infine tutte quelle esperienze e sono grata per la crescita di questi ultimi sei anni della mia vita.

Il suo personaggio in «Regina degli scacchi» ha molto colpito iI pubblico in tutto il mondo…
Non c’è molta differenza fra Beth e me stessa e per questo è stata un’esperienza così intensa come attrice. Allo stesso tempo ho dovuto fare attenzione perché se Beth passava una brutta giornata, beh, la stavo passando anch’io. A volte ho dovuto ricordare a me stessa che era solo un personaggio. Ho notato un mucchio di somiglianze fra me e quella persona. Sono eternamente grata a Scott Frank di averla voluta creare assieme a me. Non solo è stato un incredibile comandante della nave ma si è anche preso grande cura di me personalmente. Era importante per lui che io come Anya, mi sentissi al sicuro e ben protetta e gliene sarò sempre riconoscente.

Uno studio affascinante di assuefazione e genio – in particolare del genio femminile…
Non sono una che corre, ma quando ho letto il libro sono corsa ad incontrare Scott. Ho divorato il libro in un’ora e mezzo e sono corsa a quell’incontro con un sacco di idee e di passione per questa storia e quella persona. Non presumo di parlare di genio ma posso certamente rapportarmi alla sensazione di qualcuno che sente di non appartenere a nessuno e che cerca disperatamente un luogo da chiamare casa.

Personalmente la prima volta che mi sono sentita a casa è stato quando sono arrivata sul set di The Witch. È stato il giorno in cui mi sono detta ‘ah ecco un posto dove posso dare un contributo e per questo essere apprezzata’. Quello che per Beth rappresenta la tavola degli scacchi, per me è il set di un film. Lei abita in un interstizio sociale in cui genuinamente non capisce perché il suo sesso debba essere rilevante. Ovviamente credo che l’obbiettivo debba essere di muoverci verso un mondo in cui a nessuno venga prescritto ciò che può sognare o ciò che è permesso fare in base al proprio genere. E ambientare questo concetto negli anni 60 l’ho trovato estremamente stimolante.

Un periodo in cui invece era normale somministrare psicofarmaci ai bambini?
Non potevo crederci quando ho scoperto quanto fosse normale negli anni 50 e 60 sedare i bambini per renderli più docili. Mi sembrava fantascienza e invece è storia. E naturalmente è problematico che Beth scopra gli scacchi allo stesso tempo in cui viene drogata, per cui rimane sempre il dubbio se sia effettivamente lei ad essere brillante o se entrino in qualche modo i farmaci. È la questione con cui fa i conti durante tutta la serie.

Inquietante soprattutto l’abbinamento dei farmaci all’età dello sviluppo.
Certo. Io credo che la crescita non sia mai «confortevole», può essere esilarante a volte ma crescere non è mai facile. E credo che proprio come specie noi abbiamo una naturale diffidenza delle emozioni nuove, anche della felicità. Molta gente ha paura della gioia, non si fida. Ed è naturale tentare di attutire quella sensazione. A volte le pillole possono aiutare ma in genere credo che sarebbe meglio cercare di scavare dentro se stessi per scoprire la causa dei nostri malesseri, andare alla radice piuttosto che anestetizzare i sintomi.

E gli scacchi?
Ho imparato molto ed è stato appassionante imparare a giocare, riuscire a completare una prima partita, non sono una giocatrice particolarmente brava ma devo dire che ora sugli scacchi so molto. Non ci sarebbe stato verso di incarnare onestamente quel personaggio senza quella conoscenza – era necessario capire le cose che dicevo. Con Scott abbiamo parlato molto presto di come rendere distinta ogni partita, molto ha a che vedere con l’avversario di Beth e il suo stato mentale al momento. Ora quando gioco con amici a volte mi sorprendo dell’aggressività che mi viene fuori. Trovo affascinante come quel gioco stimoli la natura umana. Io non avevo mai giocato prima e sono grata di essere stata ammessa a questo mondo magico e segreto dei grandi giocatori. La gente che ama gli scacchi li ama davvero e non ho preso con leggerezza la responsabilità di rendergli giustizia.

In questa storia c’entra un po’ anche il sesso. 
Beth ha una mente del tutto analitica quindi tratta la sua prima esperienza come un esperimento scientifico. Dice ‘quindi questo è? Deludente, ma almeno l’ho fatto’. Quello che trovo doloroso osservando la sua esperienza con gli uomini nella sua vita è che non dispone di un vero senso di empatia, e il modo in cui tratta sia Harry che Benny…quando l’ho visto volevo dirgli ‘guarda che non è così che si trattano le persone a cui si vuole bene’. Poi nell’arco della storia credo che cominci ad imparare anche una padronanza della propria sessualità.

Lei che infanzia ha avuto?
Non avevo amici. Anche oggi sono naturalmente attratta dalle persone più anziane di me, credo che dipenda forse dal rapporto molto stretto che ho avuto coi miei genitori e anche i miei fratelli erano molto più grandi. Mi sembra di non essere mai stata bambina – senza traumi però, perché in fondo sono molto connessa alla mia bambina interiore dato che letteralmente di mestiere gioco. Per me i miei personaggi sono come gli amici immaginari dei bambini – sicuramente come quelli che avevo io. Quando vivevo in Argentina abitavamo vicino al bosco e io ci passavo le giornate, inventando streghe e un sacco di esseri magici che erano miei amici. Credevo che poi sarei cresciuta ma come vedete apparentemente non è stato così.

Ognuno ha la propria tribù, qual é la sua?
Gli artisti. Sono continuamente esterrefatta dal talento degli artisti con cui lavoro e che accettino di lavorare con me. Esprimermi artisticamente è l’unica cosa che ho mai voluto fare, sono solo grata di averne avuto l’opportunità.