«L’immaginazione al potere», slogan degli studenti parigini nel ’68, ha trovato pochi anni fa la sua incarnazione ironica in Mariastella Gelmini. Anche il potere immagina seppure in forme perverse: l’insostenibile leggerezza di Gelmini ha partorito Anvur, la più grande prevaricazione nel campo della ricerca scientifica in Italia dal dopoguerra ad oggi.

Il pretesto della sua istituzione -una valutazione rigorosamente obiettiva della ricerca universitaria- è evanescente: non si stabilisce la validità delle ricerche scientifiche con autorità collocate in modo statico (supposto imparziale) al di fuori del dibattito scientifico vivo che è contraddittorio, confronto. La scienza evolve attraverso le sue contraddizioni: ne risolve alcune e ne apre nuove, crea una tensione che espande il campo della conoscenza e della curiosità. Il prestigio scientifico e i riconoscimenti accademici dovrebbero derivare da parametri «culturali» condivisi che non hanno di per sé valore di verità ma sono funzionali a creare un pensare e sentire comune che consente il dibattito. Ciò che è condiviso oggi non lo sarà necessariamente domani, per questo il sapere accademico se è garanzia di serietà e di rigore può pure diventare ostacolo dello sviluppo conoscitivo. Più la condivisione del momento si trasforma in criteri obiettivi permanenti più ci si allontana dal pluralismo delle idee e dall’originalità delle ipotesi andando verso l’arbitrio e la convenzione. Per l’Anvur conta solo la rivista in cui è stato pubblicato un lavoro, non il suo valore scientifico.

Anvur, un’istituzione consolidata con la complicità di tanti, è una versione nostrana sfrontata dello specchio del potere in cui gli scienziati devono riflettersi, rinunciando al loro senso di responsabilità nel cercare il vero. In tutto il mondo lo strapotere di poche riviste (che ha creato monopoli editoriali dagli utili stratosferici) va di pari passo con un restringimento dell’agorà scientifica alle visuali di gruppo dei referees di queste riviste e dei loro amici.
Secondo Gianfranco Tajana, ordinario di istologia a Salerno,«esiste di fatto un sistema che privilegia, o al contrario censura questa o quell’idea in ogni settore della conoscenza». Non sorprende di conseguenza che il fenomeno della falsificazione dei dati di ricerca ha assunto dimensioni drammatiche, che la ricerca sta diventando rito di iniziazione a un’élite autoreferenziale e autarchica piuttosto che strumento conoscitivo. L’attività dello scienziato è sorretta da un narcisismo di vita che apre la verità soggettiva (un «modo di essere» creativo) alla verità oggettiva/condivisa (la trasformazione che ci permette di usare e amare la realtà). Questo narcisismo, in cui l’amor proprio si riflette nell’amore per l’altro, è la precondizione di ogni verità perché rende possibile l’incontro del particolare con l’universale. Se lo scienziato si fa abbagliare dallo spettro della pura obiettività (la bilancia che misura i rapporti di potere puri) e si riflette in un particolare onnipotente (riduzionismo) che usurpa la funzione dell’universalità (complessità), cede a un narcisismo di morte che cancella la distinzione tra verità e falsità, crea la falsificazione perfetta. Per Freud l’attività di ricerca è «immaginare, interpretare, congetturare».

Molti ricercatori ottengono successo sociale sostituendo l’immaginazione con la falsificazione: si liberano della loro apertura al mondo (del loro desiderio e della loro curiosità) e perdono il senso soggettivo della ricerca della verità prima di contraffarla.