Idolo caduto, il dio egizio dell’aldilà Anubi sorride con un campari in mano, sulla soglia del bar di paese. È lui il protagonista della prima graphic novel di Marco Taddei (testi) e Simone Angelini (disegni), coppia cresciuta nel panorama del fumetto underground, già autrice di “Storie brevi e senza pietà” (Bel-Ami Edizioni, 2012), che firma quest’anno per GRRRZ Comic Art Books un romanzo di oltre 300 pagine. Il dio sciacallo si staglia poderoso nella sua bidimensionalità su una copertina bianca come la sua tshirt, protagonista di una nuova vita, che ha piuttosto l’aspetto di una avventurosa discesa agli inferi. L’inferno, però, è il nostro e lo conosciamo bene: la provincia, il bar, le amicizie sbagliate, le dipendenze. Una storia interpretata da un protagonista insolito capace di mostrarci la nostra realtà più abietta.

Ne abbiamo parlato con gli autori a Lucca Comics and Games.

Come nasce il vostro libro?

Da una parte dall’esigenza di raccontare un mondo che conosciamo, rispondendo sempre a dettami di sintesi e rapidità, che utilizziamo nel tratto che nei dialoghi. Anubi nasce da un esperimento portato avanti durante altri festival: in mezzo alle sessioni di firma abbiamo buttato giù il personaggio, e presto sono nate delle microstorie. Uno dei primi Anubi, già con l’occhio stellato, diceva “Anubi è felice di essere il dio cane”. Lo schizzo ebbe un gran successo e capimmo che poteva essere un’icona forte. Sorsero poi gli altri personaggi, tutti sconfitti e perdenti e tutti interessatissimi a mantenerlo uno di loro. Se c’è qualcosa che scintilla nella melma, deve essere spento velocemente.

Anubi è un idolo di un epoca remota. Perché avete scelto un protagonista divino per raccontare un disagio della realtà?

Il mondo attuale e la società che lo abita sono il contesto in cui Anubi mostra tutte le sue disqualità: non è un uomo, non è un dio, non è nemmeno un cane… è per noi la punta più bassa del vivente, e quindi esattamente quello che volevamo esplorare: un perdente nato, una bestemmia vivente, un personaggio lacerato da mille contraddizioni.

È una collina bruciata, un fiammifero spento: è nero, ma gli occhi sono due stelle, due bagliori della gloria scintillante di secoli fa. Anubi ha perso tutto e sarà il lettore a scegliere se è stato abbandonato dal mondo, oppure se è stato sconfitto da una maledizione secolare, questo personaggio che era un dio e che è adesso in balia di una realtà sconquassata, completamente impazzita, che tenta di staccarsi da questo mondo, ma che come lui stesso afferma, cade in una specie di trappola, ogni giorno.

Il piccolo dio sciacallo del vostro libro è un personaggio inadeguato anche perché contradditorio, ma a livello grafico è una vera e propria icona. Come hai lavorato Simone per renderlo così convincente?

Anubi cambia t-shirt solo un paio di volte (una volta indossa una camicia alla Kurt Cobain, la volta successiva una a pois che ricorda un altro famoso cane dei fumetti del quale siamo molto fan) ed è rappresentato sempre di profilo, bidimensionale in un contesto tridimensionale. Il geroglifico è del resto la prima forma di fumetto…sia Anubi che Horus sono rappresentati di faccia solo quando mostrano la loro umanità, in pochissime occasioni, quindi.

Dalla famiglia anubiana si distingue però il personaggio Horus, che appartiene al mondo egizio, dove lui e Anubi “erano immensi”.

La chiave di lettura è rimasta quella delle nostre prime operazioni:“senza pietà”. In un mondo completamente folle, l’utopia di Horus, che vuole tornare a piedi in Egitto, sembra plausibile. Un’anacronismo assurdo che vede in una realtà desiderata per millenni la soluzione, quasi il contrappasso del suo declino, muoverà Horus per tutto il libro in questa migrazione verso le origini.

Perché non affrontare questo senso d’inadeguatezza a un contemporaneità disastrata attraverso divinità o santità del mondo cattolico?

Non ci interessano e sono abusate. E poi cosa c’è di più potente di un dio pagano…anche Zeus era fin troppo recente. L’Egitto con la sua civiltà millenaria era la soluzione.

Immagino che come dio dei morti Anubi rispondesse anche al tipo di società dove si trova trapiantato…

Ovviamente, tra l’altro il nostro precedente libro termina con un’intervista con la morte e Anubi può anche essere interpretato come la sua continuazione. Aldilà del tono dissacrante che utilizziamo per affrontare questi temi transculturali, la morte è davvero la chiave di tutto. L’ironia è utilizzare il traghettatore dei morti per farlo rivivere in una città di zombie. Crediamo che in generale, nella nostra società, si dia troppo per scontato il fatto di essere vivi: la presenza di Anubi è la conferma che la vita dovrebbe essere trattata in un modo molto diverso, sia nei fumetti, che nella realtà. Anubi è una specie di piccolo richiamo all’attenzione alla vita.

Infatti, pur vestito da “fumettone”underground, il vostro è indubbiamente un libro con un messaggio.

Abbiamo voluto trasmettere l’importanza del racconto a fronte del peso relativo di un disegno realistico, riportare il pensiero al fumetto come tale, a una storia che si anima di fronte agli occhi e che non può e non deve essere una vuota successione di immagini. Crediamo che ci siano autori nostri coetanei in Italia che lavorano in questo senso, restituendo dignità al fumetto (Ratigher, Dr Pira, Maicol e Mirco, o anche Manfredi Giffone). Quindi se da una parte non è necessario disegnare come Michelangelo, noi abbiamo lavorato alla caratterizzazione dei molti personaggi ai quali abbiamo infuso tutte le sfaccettature dell’impossibilità e del disagio. C’è un personaggio minore al quale abbiamo tolto un occhio al finale, solo cancellando il puntino della pupilla. Ecco, quel piccolo dettaglio apre un mondo di possibilità sulla storia del personaggio.

A parte le divinità citate, c’è un altro personaggio famoso nel libro, William Burroughs, che in una tavola importante e centrale sembra esporre tutto il manifesto del libro.

Sì, non nascondiamo che Burroughs rappresenta la via, la strada che andrebbe percorsa. È nella sua voce che si riassumono i primi ammicchi sull’amore e sull’anima. È un personaggio guida, diventa una specie di coro. È un Burroughs moralista. Ti confesseremo che nella prima stesura del libro appariva anche Franz Kafka, una specie di padre putativo dello scrittore statunitense, e altro grande precursore della nostra vita contemporanea, di questa mezza vita di ogni giorno: chi non lo ha letto non può comprendere a pieno, secondo noi, l’era delirante nella quale viviamo. In fondo abbiamo messo Burroughs nel libro anche con l’idea che potesse diventare un cosplayer del Lucca Comics l’anno prossimo… Burroughs, è un personaggio imprescindibile nella storia della letteratura e ci siamo divertiti a trattarlo con estrema familiarità (Anubi stesso lo chiama Billy), immergendolo in una realtà lontanissima dalla sua, in un’ambientazione sciatta e provinciale.

Dove direste che si svolge la storia?

In un luogo immaginario che è una fusione delle provincie da dove veniamo, Vasto e Pescara. Infatti ci sono luoghi reali delle due località, potremmo quasi organizzare un Anubi Tour a Vasto. Graficamente la città nonostante i miei studi di architettura (Angelini), è una città che non rispetta regole prospettiche o assonometriche, proprio perché imperfetta, è distorta dalla percezione dei personaggi. Al tempo stesso, esistono studi in pianta della casa di Anubi e di alcuni spazi dove si svolge la sua vicenda. Anche l’ambientazione quindi passa da un processo di costruzione e di limatura.

È la provincia a far sì che il gioco preferito degli avventori del bar sia inventare il miglior modo per distruggere l’umanità?

È probabile…chi non ha pensato anche quotidianamente a demolire la città nella quale vive? La sconfitta è proprio questa; invece di andare via da un luogo dove non stiamo bene, spesso rimaniamo a tessere vendetta, a meditare su come annichilire quello che ci circonda. È un pensiero che ci accompagna, una colonna portante del pensiero dello sconfitto, che poi è colui che non sarebbe nemmeno capace di prendere un treno e andarsene. Il piacere in quella scena sta nell’escogitare in quale modo farla finita con l’umanità, e diviene subito gioco letterario: tutti i personaggio hanno un punto di vista e le loro strategie di distruzione massiva aiutano a definirli meglio. Anche in questo caso le vecchie generazioni si rilevano le più preparate, visto che è il vecchio quello ad avere la proposta più convincente.

È lo stesso Burroughs però a dire ad Anubi “torna e diventa parte di questo mondo. E se la colpa non fosse della città?”

La città è lo spazio in cui l’inadeguatezza si materializza e quindi, nel nostro libro è l’ambiente naturale del protagonista; oltre ad essere un non-luogo, la città è intesa quindi come spazio sociale del quale abbiamo bisogno ma che ci distrugge. Forse Burroughs in quel momento da voce a quel coro di persone che ognuno di noi, dopo essersi sentito divinità per un periodo della giovinezza, a un certo punto percepisce come giudicanti, o perlomeno portatori di aspettative sociali difficili da soddisfare. La maggior parte di noi rinuncia a quella parte divina che portiamo dentro; probabilmente i pochi che riescono a conservarla, mantengono anche uno sguardo speciale sulla vita.

Anche in questo caso si conferma il gusto letterario per la metafora, ben diffuso nelle vostre pagine.

Sì, per esempio, nel libro si parla di droga, ma non ci interessava mostrarla, anche perché per chi è dipendente è un pensiero fisso, e la roba c’è sempre. In più per un tossicodipendente quella dipendenza è metafora di amore. Un tossico è innamorato della droga, il motivo per andare avanti, è la forma più ottimistica di sconfitta. In un fumetto come questo, l’eroina non poteva non avere un ruolo importante, ma abbiamo tentato di renderla un po’ meno esplicita, di non mostrarla. Le scimmiette disegnate, che sono la metafora più evidente di matrice letteraria (La scimmia sulla schiena, romanzo del 1953 di W. Burroughs, ndr) servono a questo e rendono il messaggio universale, diventano simbolo di un desiderio, che è ossessione e trappola.

Per scoprire se Anubi riuscirà a liberarsi dalle dipendenze, dalla città, da ciò che è diventato, l’unica soluzione è quella di abbandonarsi al rocambolesco e allucinato girovagare delle tavole del libro e capire se in fondo a noi stessi brilla ancora la stella che illumina lo sguardo del Dio sciacallo.