«Mentre dettavo il telegramma per il tribunale di sorveglianza di Torino con l’elenco dei problemi di mio figlio, la signora dello sportello si è messa a piangere e mi ha chiesto di farle sapere come andava a finire. Due anni dopo non sono ancora riuscito a tornare in quell’ufficio postale per dirle che Antonio non c’è più». È straziante la testimonianza di Mario Raddi, padre del 28enne morto nel carcere delle Vallette il 30 dicembre 2019. Durissime quelle della garante dei detenuti del capoluogo piemontese Monica Gallo e dell’avvocato Gianluca Vitale.

Famiglia, istituzione di garanzia e legale della difesa hanno tenuto ieri una conferenza stampa per riavvolgere il nastro degli ultimi sei mesi di vita del ragazzo e sostenere le ragioni dell’opposizione all’archiviazione del procedimento per omicidio colposo. «Affinché non avvenga mai più», hanno detto a turno.
Antonio Raddi entra nel carcere torinese delle Vallette il 28 aprile 2019, dopo essere stato allontanato dalla comunità di recupero Giovanni XIII dove stava terminando di scontare una pena per reati connessi al suo passato di tossicodipendente. A luglio, dopo un periodo di isolamento per il sospetto di scabbia e tubercolosi, inizia a perdere peso e comincia una via crucis che ha per ultima stazione una morte annunciata. Mentre lo stato di salute peggiora inesorabilmente col passare delle settimane, la garante scrive alle diverse autorità competenti, le invita a intervenire. La famiglia segnala il caso al tribunale di Torino e a quello di sorveglianza. Non succede nulla.

Il 4 dicembre Raddi è ormai su una sedia a rotelle, ha le labbra viola, fa fatica a parlare, dice di aver vomitato sangue. Il giorno seguente Gallo invia una nota ad Asl, magistrato di sorveglianza, garanti regionale e nazionale. Il 10 il ragazzo viene trasportato all’ospedale Maria Vittoria e poi nel repartino psichiatrico dell’ospedale Molinette.
Rifiuta il ricovero e chiede di essere riportato in carcere. Tre giorni dopo sarà ospedalizzato d’urgenza, ormai in coma. Quando entra per la seconda volta in meno di una settimana al Maria Vittoria gli organi interni sono già gravemente compromessi, funzionano solo cuore e cervello.
«Non ho mai visto nulla di simile in 40 anni di lavoro», dice il primario del reparto di rianimazione ai familiari. Raddi è passato in cinque mesi e mezzo da 90 a 50 kg di peso. Il 30 dicembre muore per un’infezione polmonare.

Due anni dopo la sua scomparsa l’indagine per omicidio colposo potrebbe essere archiviata. Dopo una prima consulenza insoddisfacente e il rifiuto del giudice per le indagini preliminari (Gip) di tenere un incidente probatorio, il pubblico ministero ha chiesto e ottenuto una seconda consulenza. Secondo la difesa aggiunge dettagli importanti nella ricostruzione della catena di responsabilità, ma il pm ha ritenuto di dover chiedere l’archiviazione. Le ragioni: il ragazzo ha rifiutato volontariamente il ricovero e ha fornito risposte scarse alle proposte terapeutiche.
La famiglia però non ci sta e ha presentato opposizione. Adesso sul tavolo del Gip restano tre carte: archiviare, ordinare un supplemento di indagini, disporre l’imputazione coatta.

«Perché il 10 dicembre nessun medico del pronto soccorso è stato in grado di dichiarare quello che poi è venuto fuori il 13, cioè che aveva gli organi vitali compromessi? Quali delle autorità a cui ho inviato mail per mesi, come il direttore del carcere e quelli di Asl e dipartimento prevenzione dell’Asl penitenziaria, sono andate a vedere come stava Antonio Raddi?», chiede Gallo.
La famiglia e l’avvocato Vitale contestano che il ragazzo abbia rifiutato le cure. «Non gli è mai stato proposto di andare nel reparto sanitario», afferma il padre. Che ci tiene a spiegare perché suo figlio non abbia voluto rimanere nel reparto psichiatrico alle Molinette: era spaventato dal contesto e in preda ad ansia e depressione.