«La solitudine: bisogna essere molto forti/per amare la solitudine» sostiene Pier Paolo Pasolini. In un tempo e in un luogo remoti è sepolta – non priva di vita – l’Essenza di Neiwiller. «Quando penso al laboratorio penso alla vita. È là che va fatto il bilancio più lucido. Vorrei praticare più strade. Essere aperto ad altre esperienze. Da molto tempo, infatti, non mi riconosco in una Compagnia di teatro in senso stretto. Bisogna mettere con coraggio tutto in discussione. Creare con pazienza e tenacia le condizioni vitali per il proprio lavoro». Questo è il concetto, l’idea-teatro di Antonio Neiwiller (Napoli 9 marzo 1948/Roma 9 novembre 1993), poeta, autore, attore e regista, che attraversa tre decenni di ricerca teatrale italiana. Nella sua formazione: studi filosofici, insegnamento e pittura. Nel 1974 fonda il Centro Teatro Sud, firmando la prima regia con «Ti rubarono a noi come una spiga», lavoro ispirato a Paul Eluard, Salvatore Quasimodo, Rocco Scotellaro, Elio Vittorini. Col C.T.S. propone un teatro che coinvolga non solo la scena ma, in una visione ben più ampia, la stessa esistenza dell’artista e la società in cui vive e dove il teatro può tradursi in un’arricchente esperienza di vita, emancipata dal mercato e dall’omologazione scenica. Il fatto che la famiglia sia per metà svizzera chiarisce la propensione a dischiudersi all’Europa e al mondo, segno essenziale per la sua composita ricerca teatrale. Ciò è testimoniato dall’artista in un’intervista del 1986: «Forse le mie due anime sono da cercare proprio nella mia famiglia: la napoletanità popolare di mio nonno materno contrapposta alla famiglia di mio padre, degli svizzeri che impiantarono una fabbrica di guanti e un’agenzia di cambio. Erano di origine ebrea e questa componente la ritrovo sempre più operante in me: la concezione di utopia, per esempio, che nella cultura ebraica non è l’irrealizzabile, ma il non ancora realizzato». Nel 1975 rilegge e dirige il «Don Fausto» di Antonio Petito focalizzando la vena poetica dell’opera e, l’anno successivo, «Quanto costa il ferro?» di Bertolt  Brecht. Nel 1977 fonda la Cooperativa Teatro dei Mutamenti, che rappresenta uno dei gruppi teatrali più attivi presenti a Napoli e con cui intraprende un’esplorazione sulla relazione tradizione-avanguardia. Tra le opere realizzate: «Berlin Dada» (’78), «Anemic Cinéma» (’79), «Heine (Una favola invernale)» (’80), «Lo cunto de li cunti» (’81) tratto dall’opera omonima di Giambattista Basile. Dopo «Black out» (’82), ispirato ad Harold Pinter, inizia una nuova fase del Teatro dei Mutamenti in cui Neiwiller rimane da solo a causa della disgregazione del gruppo originario, vivendo momenti difficili ma non cedendo alla disperazione. Sarà dopo aver assistito a «La Classe morta» (’75) di Tadeusz Kantor, che decide di ripensare al proprio Teatro. La nuova generazione del Teatro dei Mutamenti si basa su due princìpi fondamentali: ripartire da zero, il che non significa cancellare il trascorso artistico-poetico, bensì pensare a una nuova ‘partenza’, e ricostruire una ‘nuova comunità teatrale’. Tutto ciò nasce all’interno del laboratorio, che diventa il luogo, il cardine essenziale della ricerca poetica e teatrale. Così Neiwiller: «Io lavoro a un teatro che abbia le sue radici nel vissuto metropolitano, riuscendo però a darsi una specificità talmente forte da determinare lo stacco del suo linguaggio da quello di tutti gli altri media». Germina su siffatte considerazioni il nuovo Teatro di Neiwiller. Questa nuova fase porterà a realizzare opere come «Titanic the End» (’83), ispirato a «La fine del Titanic» di Hans Magnus Enzensberger, e «Darkness» (’84). Esplorando l’universo di Paul Klee, sono scaturite due memorabili pièce, «Fantasmi del mattino» (1985-1986) e «Storia naturale infinita» (’87), nonché un libro «Non ho tempo e serve tempo» (L’Alfabeto Urbano, ’88). Lavora col gruppo Falso Movimento: interprete nel 1985 de «Il desiderio preso per la coda» da Pablo Picasso, «Coltelli nel cuore» (’85) da Bertolt Brecht e «Ritorno ad Alphaville» (’86) da Jean-Luc Godard, diretti da Mario Martone. Nel 1987 entra a far parte di Teatri Uniti dove, oltre al suo Teatro dei Mutamenti, sono presenti Falso Movimento di Martone e il Teatro Studio di Caserta di Toni Servillo; un gruppo in cui vige, o dovrebbe vigere, la libertà artistica dei rispettivi percorsi. Ed è così che Neiwiller prosegue per il suo cammino; il suo lavoro è volto alla ricerca del “Teatro Clandestino”, un teatro che prescinda dai meccanismi di produzione e di mercato. Nel 1987/88 realizza due sessioni di laboratorio, ovvero «Questioni di frontiera», presentate ai Festival di Santarcangelo e Montalcino, e allestisce «La natura non indifferente» (’89), dedicato all’artista Joseph Beuys. Segue «Una sola moltitudine» (’90), destinata allo scrittore Fernando Pessoa. Nello stesso periodo lavora con Leo de Berardinis in «Ha da passà ’a nuttata» (’89) dall’opera di Eduardo e in «Totò, principe di Danimarca» (’90). Nel contempo elabora ‘La trilogia della vita inquieta’, ispirata a Pier Paolo Pasolini, Vladímir Majakovskij, Andrej Tarkovskij. Nel primo capitolo, «Dritto all’inferno» (’91), le parole di Pasolini sono frantumate in un linguaggio inventato, nato direttamente dal corpo dell’attore. Nello stesso anno a Erice (TP) realizza «Salvare dall’oblio», un laboratorio incentrato sull’esperienza interiore dell’attore. «Canaglie» (’92), secondo capitolo della Trilogia che, dopo la prova generale napoletana, viene sospeso per la malattia che lo colpisce. Neiwiller riprende a recitare nel ’93: è Cotrone ne «I giganti della montagna» di Luigi Pirandello per la regia di Leo de Berardinis. Dà ineguagliabili prove attoriali anche in campo cinematografico: nel ’92 è Don Simplicio in «Morte di un matematico napoletano» di Martone, nel ’93 è il sindaco utopista di Stromboli in «Caro diario» di Nanni Moretti. Il Teatro di Neiwiller rappresenta uno ‘spazio’ dove ci si mette in ascolto per sviluppare in solitudine e nel silenzio la propria ricerca interiore. È il suo modus di opporsi in un «tempo in cui occorre convivere con le macerie e l’orrore, per trovare un senso». Un ‘teatro clandestino’ in dissenso con la morale dominante del proprio tempo. Nel 1993 al Festival di Volterra mette in scena «L’altro sguardo: Per un teatro clandestino» dedicato a Tadeusz Kantor. La performance è il suo testamento poetico. A venticinque anni dalla morte senza soffermarci sugli imperdonabili vuoti di memoria dei vari Festival ‒ bisogna rincorrere le sue impronte per contagiare l’effimero contesto culturale e teatrale che ci circonda e far sì che la sua de-formazione teatrale si diffonda come un virus. È arduo, ma ciò si può e si deve fare. Riattraversarlo nel Silenzio per scongiurare la rimozione forzata di un immenso poeta della scena.

dai Taccuini Ignei di Vincenza Modica

Vincenza Modica, attrice napoletana, è nata artisticamente negli anni ottanta all’interno del gruppo di ricerca teatrale guidato da Antonio Neiwiller, il Teatro dei Mutamenti e, dopo molti anni di assenza dalle scene, torna adesso a presentare un suo lavoro intimo e sedimentato nel tempo. La ricordiamo in varie opere di Enzo Moscato, Leo de Berardinis, Alfonso Santagata, Claudio Morganti, etc. con una presenza intensa, particolare, quasi esatta. Molti artisti la riconoscono come riferimento importante del proprio percorso formativo, quale guida di rara densità e sapienza, nel porgere e trasmettere i contenuti misterici dell’agire performativo in maniera organica e poetica. Eccola che torna ad offrire uno spettacolo autoriale che coagula alcuni dei principi fondanti del suo percorso artistico e della sua personale urgenza riguardo la scena: Attraversamenti, tappa della Trilogia dell’Assenza, dai «Taccuini Ignei», suoi appunti teatrali.
(estratto dalla presentazione di Caterina Poggesi 13 ottobre 2014. Qui sotto Vincenza Modica dai suoi «Taccuini Ignei». L’attrice è in scena a Napoli fino al 25 marzo con «Raccogliere e bruciare» regia di Enzo Moscato, ispirato a Spoon River)

Scena vuota. Scena silente. Luogo della dimenticanza. Una presenza, superstite in mezzo alle cose, in immobilità, con soltanto il respiro. Corpi inerti si frappongono tra la luce e l’occhio che attende di vedere. Non c’è annuncio alcuno, ma parole affiorano dalle radici del silenzio, parole che sono impronte di passi nell’acqua e ancora non sanno di farsi cammino. “Se tutto fosse coinciso nell’istante del suo disparire e, se per questo avesse cercato – eccellendo per luminosità – la forma che testimoniasse nella memoria l’esistenza di questo tutto, forse noi non ci chiederemmo di quale fascino vestirci ma, esistendo con corporeità fatta della stessa materia dei sogni, abiteremmo l’assenza di noi stessi nella venatura di un legno, nella fragilità di una ragnatela, nell’incorporeità del vento, nella trama di un suono”.