«Morirò a Parigi sotto la pioggia,/ un giorno del quale ho già il ricordo./ Morirò a Parigi — e non m’inganno — / come oggi forse un giovedì d’autunno. // Un giovedì sarà, perché oggi, che proso / questi versi, gli omeri mi son messi / alla men peggio, e giammai come oggi, / con tutta la mia strada, sono solo». Sono le quartine di un sonetto, mirabile e fatale, del grande poeta peruviano César Vallejo. Se il poeta-filosofo così legato alle vicende rivoluzionarie di Cuba José Martí, e José Carlos Mariategui, il primo marxista d’America, e José Maria Arguedas, il drammmatico cantore della minacciata identità culturale degli indios, sono figure presenti nella cultura italiana, si deve soprattutto all’opera intensa e appassionata di Antonio Melis, uno dei nostri più agguerriti ispanoamericanisti, alcuni scritti del quale sono stati raccolti in Dietro il silenzio Sei saggi latinoamericani e un inedito (a cura di Guido Meli, Biblion, pp. 230, con 10 fotografie, € 15,00).

Il profilo biografico con cui il libro si apre, a cura del figlio Guido, ripercorre, in modo preciso e sensibile, i tratti pricipali della figura di Melis: la sua formazione intellettuale, una umanissima partecipazione alle vicende politiche e culturali, spesso drammatiche, dei paesi latinoamericani; gli anni dell’insegnamento a Siena; l’amicizia con Romano Luperini, Ferruccio Masini, Gianni Scalia, Antonio Prete; la collaborazione a riviste come «In forma di parole» e «Metamorfosi»; i tanti libri (su Neruda, García Lorca, Mariategui, Arguedas) e articoli; i frequenti viaggi in America Latina dove conosce scrittori, poeti e critici, con cui intreccia rapporti duraturi.

Nel primo saggio del libro, L’America: l’incontro con l’altro e il senso dell’umano, Melis prende posizione, senza infingimenti, richiamadosi alla radicale denuncia che il frate domenicano Bartolomé de Las Casas scagliò contro le iniquità e gli orrori perpetrati dai conquistatori, e insieme alla meravigliosa saggezza di Montaigne — «nel popolo dei cannibali non vi è nulla di barbaro e di selvaggio» — contro la «boria eurocentrica». Perché questa continua i meccanismi della conquista spagnola, disconoscendo attraverso altri, più raffinati modi, l’alterità e la ricchezza del Nuovo Mondo.

Melis riprende questo discorso nell’ultimo saggio del volume, Venti anni dopo, dove rivendica, come ha sempre fatto, lo stretto legame tra critica letteraria e storia culturale e politica — solo così si possono interpretare i «testi primari», come hanno fatto i grandi critici: Auerbach, Spitzer, Bachtin … — mettendo in guardia contro l’accettazione acritica di tendenze e teorie alla moda. Il bersaglio, non dissimulato, è l’«orgia nominalista», che a partire dall’egemonia strutturalista, male interpretata, ha caratterizzato tante teorie.

L’assunto è serio, ma Melis si diverte — lasciandosi andare al versante ludico della sua personalità, delizia degli amici — ad affrontarlo anche con un sonetto che si ispira al grande scrittore barocco Francisco de Quevedo: «Chi vuol che critica aggiornata sia/ dovrà imparare questo gergo a mente:/ attante, narratario, committente, / diegetico, pragmatico, entropia. // Versus, messaggio, marca, isotopia, / assenza, contrastivo, referente …».

Il nucleo del volume ci presenta alcuni autori su cui Melis è costantemente tornato: Xavier Abril, Ernesto Cardenal, Rayen Kvyeh, José Maria Arguedas. Abril — conosciuto a Firenze, nel suo esilio italiano — è un ispirato poeta surrealista, che resta però sempre in sintonia con il linguaggio fortemente drammatico di César Vallejo, peruviano come lui. Del nicaraguense Ernesto Cardenal leggiamo qui le Coplas por la muerte de Merton, un lungo poema, che si ispira a Whitman e ai Cantos di Ezra Pound, dedicato al suo maestro di vita Thomas Merton, morto infilando la spina in una presa di corrente. È straniante la nota umoristica, in un contesto di grande emozione, ma questa morte è «assurda come un koan» e «per il cristiano e profetico Cardenal la risata è una testimonianza della fiducia umana nella resurrezione».

Cardenal ritorna, in un altro saggio, per il motivo apocalittico, così frequente nella sua opera, e viene suggestivamente confrontato con l’enigmatico racconto Apocalipsis de Solentiname di Julio Cortázar. Di Rayen Kvyeh sono tradotte, da una lingua indigena del popolo mapuche, alcune elegie sulla Madre Terra.

Il peruviano Arguedas, di cui Melis ha curato il romanzo mitico La volpe di sopra e la volpe di sotto (Einaudi, 1990) è certamente uno degli autori da lui più amati, e la sua è tra le voci più audaci della letteratura ispanoamericana contemporanea: «Accanto alla rivendicazione orgogliosa delle radici indigene insidiate, si avverte l’annuncio di una nuova letteratura, in cui le istanze del mondo andino e le sue forme espressive, in primo luogo l’oralità, non sono più mero contenuto di forme estranee, ma elemento portante di una struttura narrativa proiettata verso il futuro».