Ci sono Mostre che anche quando Grandi Eventi, campioni d’incassi, si fanno dimenticare come un nulla – e altre che invece ti restano dentro come una grande emozione. E la straordinaria retrospettiva sul lavoro d’artista di Antonio Marras, che la Triennale di Milano ha da poco finito di ospitare con il titolo Nullo Dies Sine Linea, è senz’altro una di queste. Ed ecco perché, anche se la Mostra si è conclusa ormai da una settimana, proveremo a raccontarvela come qualcosa di veramente memorabile, “non a caso la mostra con più visite guidate nella Storia delle Mostre, non solo alla Triennale” mi fa notare la curatrice Francesca Alfano Miglietti. E quale miglior modo di rendere omaggio a un’emozione, che continuare a parlarne anche al passato?…

Straordinaria fin dall’ingresso: nero-fitto di vecchie giacche appese a mezz’aria su un’infinità di grucce, a mò di muro. Lì per lì non sai se aggirare l’ostacolo o passarci dentro – e come ci provi, è fragoroso scampanare, perché ad ogni giacca corrisponde un campanaccio. Ed è tale l’allegria di quel passaggio, che senz’altro infili anche il candido muro di grucce-camicie subito dopo, e ti accorgi che il suono è un po’ diverso, come diverso è il suono che fanno i prati a seconda se a brucare sono le pecore oppure le capre: transumanza…

Superato il varco ti accorgi di essere passato, in realtà, sotto una doppia serie di lettoni antichi e giganteschi, che vedi lassù in alto, in fila per tre. Ed eccoti dentro non sai più quale vecchio film, o fantasia di nascondino: il Marras-mondo ti si apre davanti come un’infilata di possibili percorsi paralleli, all’interno di una lunga e curvilinea galleria, illuminata solo quel-che-serve qua e là, e fittamente tappezzata di quadri che fin da subito ti appaiono curiosi, notevoli, preziosi, non per ciò che raffigurano (infinità di schizzi, di volti, di mani, di uomini e donne in posa che, è lo stesso Marras a dirlo, sono solo scarabocchi “un modo per giocare con i fondi di caffè, o tenermi le mani impegnate proprio sempre”); ma piuttosto per il modo in cui si parlano fra loro, per l’intimità che li lega nelle loro diverse quadrerie, per l’amore del collezionista che percepisci in quell’infinità di vecchie cornici, recuperate da chissà quanti bric-à-brac: la seconda vita di ogni cosa…

Ed eccoci in tema. La voglia e la possibilità di ridare vita. La creatività del Marras stilista/artista, che si incontra con la passione di una curatrice come Francesca Alfano Miglietti – per realizzare un desiderio a lungo accarezzato, e senz’altro autentico, sentito, “quello di riproporre l’insieme di tutte le opere, installazioni, interventi già presentati in luoghi diversi, nell’arco di ben trent’anni, e di volta in volta concepiti come solo show, o per mostre collettive, o in collaborazione con le artiste-muse di sempre, Carol Rama, Maria Lai… Di riproporre insomma quella che si potrebbe chiamare la seconda vita di Antonio Marras, il Marras-artista rispetto al Marras-stilista… che io sempre pensato in realtà come la prima. Un progetto che si è finalmente avverato proprio grazie all’incontro con questo spazio espositivo, così lungo e leggermente curviforme, un po’ come un accogliente utero, diciamolo…”

Percorso senza un prima e un dopo, decisamente onirico, molto in soggettiva. Una mostra concepita per parlare ad ognuno in modo particolare: con molti quaderni-collages in cui ritrovare frammenti di noi stessi; molti spazi solo apparentemente delimitati da porte/finestre recuperate qua e là; molti specchi in cui riflettersi nel chiaro-scuro dei passaggi; molti passaggi da ripercorrere anche più volte, per il piacere di tornare sui proprio stessi passi.

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Tantissimi i quaderni: quelli vecchi, con la copertina nera e il bordo rosso, pieni di segni, disegni, collages, solo debolmente illuminati all’interno delle loro teche; oppure da sfogliare pagina per pagina all’interno di scatole incubatrici, di quelle in cui finiscono i neonati con problemi di respirazione; o esposti tutti in fila, archivio in progress di una vita. “Un modo per dire al pubblico: avvicinati… perché non c’è contatto se non ci si avvicina. Malinconia, perdita, dolore, recupero, oggetti o pezze che forse andrebbero buttate e però no, si salvano, si recuperano, si rammendano, si tengono insieme, e perdino si impreziosiscono.. Io credo che questa mostra sia stata particolarmente scandalosa per questo richiamo ai sentimenti e direi proprio alla cura” sottolinea la stessa curatrice. “Come per quella specie di totem, in bilico su una vecchia Singer, che vedeva impilate, dentro una serie di scatole, non so quante vecchie forme lignee di scarpe, fasciate come per proteggere da chissà quali future vesciche. O come nelle scritte ricamate, con parole bellissime del tipo ‘il vento spegne le stelle’, lungo quell’intera parete bianca, assemblaggio di vecchie camicie da notte: commosso omaggio alla grande Maria Lai. O senz’altro in una delle installazioni più significative della mostra, nata dal recupero di giacche, pantaloni, gilet, camicie che negli anni ’60 i carcerati realizzavano in Sardegna per l’esercito italiano, e che Marras ha scucito, rimontato, impreziosito di ricami e infine architettato a mò di opere-a-rotelle, illuminate dal di dentro… e che sono il suo omaggio agli esclusi, gli scartati. Non a caso alcuni visitatori sono tornati più volte a vedere questa mostra, ogni volta dichiarandosi emozionati: non succede spesso.”

L’opera che si realizza quindi anche come salvage, salvataggio, nelle più diverse narrazioni. Oggetti che furono: belli, preziosi, curati, appartenuti a qualcuno, e forse goduti, senz’altro vissuti, o solo toccati. E che poi sono stati dimenticati, scartati, abbandonati… fino a che l’uomo-Marras non li ha visti, estratti dal mucchio, scelti – e riposizionati, ciascuno nella sua scatola/cornice, come nella bellissima serie di pannelli-icone, che concludeva la mostra. “Particolarmente bella quella che si limitava ad inquadrare il minuscolo ritratto di uno sconosciuto, foto in realtà trovata all’interno dello stesso supporto ligneo, dentro un cassettino, come in attesa di venire… rivelata.”

E infine l’installazione più spettacolare di tutte, una specie di torre, composta da 100 gonne fittamente plissettate, di quelle che ancora adesso le donne dei paesi più all’interno della Sardegna usano normalmente – e in effetti, capolavori di arte tessile che la Sardegna condivide solo con il Giappone, dove non a caso Antonio Marras gode di una notorietà molto speciale, ai limiti della venerazione… E al top di questa torre, ecco una modella: immobile, ieratica, semi-dea. Unica concessione del Marras-artista al Marras-stilista? O suprema affermazione del Marras-stilista come artista? Domanda oziosa. Non a caso tutto questo scenario di emozioni ha preso davvero vita in occasione del più straordinario fashion show che la recente Fashion Weak milanese potesse permettersi di sognare: una serie di languidi tableax vivants, perfettamente in tema con tutte le istallazioni esposte in mostra. Un carillon di gesti, movenze e suggestioni di rara bellezza, mirabile identificazione tra arte e vita: teatro totale.