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António Lobo Antunes, strumenti umani

António Lobo Antunes, strumenti umaniAlfredo Cunha, «Vila Franca de Xira, 1975»

Scrittori portoghesi Le voci di ventiquattro narratori, convocati per testimoniare la vita di un militante del Partito comunista portoghese, scivolano via via in una musica ininterrotta: «Dizionario del linguaggio dei fiori», da Feltrinelli

Pubblicato circa un anno faEdizione del 23 luglio 2023

Di invenzione tutt’altro che recente, il procedimento narrativo della frammentazione del punto di vista si è rinnovato negli ultimi decenni, a partire soprattutto dall’uscita di I detective selvaggi di Roberto Bolaño (1998), romanzo che, raccogliendo in modo originale l’eredità del Cortázar di Rayuela, immaginava per la letteratura del nuovo secolo strade non ancora battute, all’ombra dei totem stilistici individuati dallo scrittore cileno: «il gioco», e «l’intarsio di voci». Pur mantenendosi a una certa prossimità da entrambi, dalla sua monastica officina letteraria António Lobo Antunes ha partecipato a questo rinnovamento da una prospettiva radicale e del tutto autonoma.

Da una prima, non agevole lettura del suo Dizionario del linguaggio dei fiori (ora edito da Feltrinelli nella bellissima traduzione di Vittoria Martinetto, pp. 378, € 24,00), si direbbe che ventiquattro narratori, nel corso di altrettanti capitoli, si passino l’un l’altro il testimone per illuminare alla luce malcerta della propria voce la figura di un protagonista assente, intenti a una specie di confessione, o di deposizione. Eppure, una volta abituato l’orecchio, si comincia a ascoltare una musica ininterrotta che poco ha di confessionale: emergono infatti frammenti di ricordi incatenati tra loro da legami impercettibili, illogici, inframmezzati da brandelli di dialoghi e da interventi indirizzati a un interlocutore immaginario e cangiante.

Il personaggio in absentia compare nei diversi monologhi di sbieco, in penombra, talvolta in una sola, rapidissima battuta, sommersa da reminiscenze personali che vanno altrove, inseguendo il volo di una cicogna (entità ricorrente del libro) o una remota scena famigliare. E dire che i «testimoni» convocati per restituirne i tratti sarebbero quelli più adatti: i capitoli si intitolano infatti «Suo padre», «La sua compagna», «Sua sorella», ma anche – e qui si inizia a ottenere informazioni più circostanziate su di lui – «L’agente della Pide che lo arrestò a Peniche», «Il suo compagno», «Il suo commissario politico», e così via.

Travaglio esistenziale
Prende forma la silhouette di un dirigente del Partito comunista portoghese, impegnato nella resistenza contro il regime di Salazar, arrestato più volte, mandato a scontare la sua pena nelle carceri coloniali, e infine ripudiato dal suo stesso partito nonostante la sua fedeltà assoluta, forse perché omosessuale. Di lui viene pronunciato il nome soltanto una volta, verso la fine del romanzo: Júlio. Per il lettore portoghese forse questi indizi basterebbero, ma al lettore italiano serve probabilmente il risvolto del libro per capire che quello di cui si tratta è un personaggio storico, Júlio de Melo Fogaça (1907-1980), e che la sua biografia corrisponde a quella delineata per accenni dal Dizionario. Ma allo scrittore lusitano non sta a cuore nulla di più di quanto le cose, i volti e le immagini hanno da mostrare e da riecheggiare: più che incrociare sistematicamente le voci, Lobo sembra approdare a un esperimento quasi musicale, estremo anche per le sue abitudini – delle quali quasi non fa più parte, da tempo, l’utilizzo del punto fermo: un esperimento in cui le unità di tempo e luogo, la sintassi e persino la logica del discorso sono relegate a un ruolo marginale rispetto a una decisiva, immaginifica semantica sonora fatta anche della ripetizione di interi periodi. La sua consueta scrittura polifonica assume qui i connotati del libro-spartito, e rimanda con insistenza alla Fuga (Fuga per canonem è la definizione tecnica che Joyce diede, nello Schema Linati, al capitolo di Ulisse intitolato «Sirene»: capitolo polifonico del suo grande libro-spartito).

Se si riesce a resistere all’effetto ipnotico delle pagine del Dizionario, si può distinguere chiaramente la presenza di un demiurgo che, anziché raccogliere le testimonianze, le tira fuori a viva forza, toccando corde invisibili, dagli archivi mentali di personaggi che ci si immagina ormai ridotti a uno stato catatonico, strumentale, come sotto effetto di un potente narcotico. È lui, il demiurgo, a orchestrare quello che solo in apparenza è il «monologo» del narratore di turno. E la sua ambizione è ricombinare le tracce di memoria, parole, suoni nelle quali si imbatte assecondando una gerarchia che risponda a un criterio niente affatto mimetico, bensì poetico, e mai come stavolta, acustico. A condurre è il suono delle immagini: la insostenibile malinconia delle immagini perdute che affollano ogni pagina scritta dall’autore della «Trilogia di Benfica», e che, lasciate cadere sul testo come pesanti gocce, si espandono in grandi macchie fino a toccare tutte le cose rendendole più vivide, più dolorose, più vicine.

L’anima degli oggetti
Il lirismo di Lobo è inconfondibile: ha qualcosa di brutale, ma anche di comico, che si direbbe rimandare talvolta alle voci monologanti e strologanti del teatro dell’assurdo. Non si perde mai in compiacenti nostalgie, trova piuttosto la forza di afferrare gli oggetti attraverso i dettagli, e capovolgendoli come si fa con le sfere di vetro con la finta neve, ne mostra ancora una volta la vita interiore, suggerendo una specie di animismo laico che trascina nella narrazione, sullo stesso piano, alberi e fiori, animali e corsi d’acqua, città, vicoli, strade, cantine. Una miriade di dettagli che concorrono a ricostruire anzitutto un diorama di Lisbona, il «personaggio» più caro a Lobo, da sempre, raccontata a partire dagli angoli bui e dimenticati dei quartieri, dalla natìa Benfica a Pedralvas, in una luminescente prospettiva sinottica, dove luoghi e epoche diverse si offrono distinguibili ma unite in una sola, grandiosa veduta.

Mentre la vita infelice e piena di passioni mai domate di Júlio resta in gran parte nell’ombra, tutt’attorno si illuminano a intermittenza i volti di chi ha attraversato accanto a lui un pezzo di storia del Portogallo, che oggi appare lontanissima e indicibile. E proprio dal sentimento di impossibilità del linguaggio di dire le cose così come esse sono, o furono, scaturisce il senso ultimo, forse tragico, del Dizionario: un senso racchiuso nella allegorica trouvaille di uno dei narratori, che racconta come dalle assi sconnesse del pavimento, in una vecchia casa alla periferia di Lisbona, sia emerso uno strano opuscolo del 1863, intitolato «Dizionario del linguaggio dei fiori», del quale compariranno, all’interno del testo, diversi estratti. L’ultimo di essi sembra suggerire il legame segreto tra l’aspetto formale e quello «storico» del romanzo: «Non occorre dunque far altro che conferire un’anima ai fiori affinché il loro linguaggio, propagandosi successivamente, divenga un giorno linguaggio universale. Le corone degli antichi furono per noi i primi caratteri di questa lingua gentile, altri ci sono giunti dai popoli d’Oriente che ci offrono i tipi dei loro più bei fiori; altri infine vengono letti in questo libro immenso le cui foglie sono sparse sopra la terra». Radunare quelle foglie sparse sopra la terra: è il compito immane che Lobo ha coraggiosamente assegnato a se stesso, ormai quasi mezzo secolo fa.

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