Chiede qualche foglio di carta bianca e una penna. Si siede, ti guarda, sorride. Ha un sorriso che cambia, Antonio Rodriguez Guerrero. Mobile come la mano che guida la penna su un foglio, o insieme all’altra resta sospesa nell’aria per fermare un momento del racconto. Mobile come gli occhi che scavalcano il vetro sottile delle lenti, si fissano nei tuoi, si assentano per cercare ricordi. Fa da contrasto la voce, bassa e fluente, colonna sonora di una tranquillità che ti riesce difficile credere. Perché Antonio Guerrero Rodriguez è uscito da un carcere degli Stati Uniti appena cinque mesi fa, il 17 dicembre 2014, dopo sedici anni e sessantacinque giorni. La grazia firmata da Barak Obama ha cancellato una condanna all’ergastolo, poi ridotta in appello a ventun anni e dieci mesi. Accusa: attività di spionaggio e cospirazione. Antonio era uno dei Cinco Presos, i cinque prigionieri cubani. le cui vicende avevano fatto nascere una campagna internazionale di solidarietà. Un processo in stile Guerra Fredda, prove a favore secretate, prove contro messe in campo da spie di regime, celle di isolamento, verdetto e detenzione durissimi. Una settimana fa, Guerrero è stato ospite a Venezia della nona edizione del festival internazionale di poesia «La palabra en el mundo». Presenza fisica, dopo che, nelle edizioni precedenti, altri avevano letto le sue strofe spedite dalla cella.

Gli avevamo chiesto di incontrarlo, aveva accettato senza porre condizioni. E così ci siamo trovati davanti quel sorriso, quelle mani, quegli occhi, quella voce, a raccontarci una storia i cui capitoli sono tessuti dalla fede politica e dall’amore per Cuba. Mai abdicati di fronte alle manette, alle minacce, ai tentativi di blandire, alla solitudine disperante dell’attesa, alla perdita della libertà. Una storia che ha trovato nella metrica dei versi il braccio sostenitore di una lunga, lunghissima resistenza. Il 16 ottobre 1958, a Miami, da genitori cubani, nasce Antonio Guerrero Rodriguez. Il resto della famiglia vive sull’isola, e lì, per le feste di fine anno, tutti sono soliti riunirsi. Succede anche in occasione del capodanno 1959. Ma arriva il primo gennaio, Fidel entra all’Avana, e il volo di ritorno a Miami registra l’assenza di tre passeggeri che di cognome fanno Rodriguez. Scolaro alle superiori, Guerrero comincia ad accarezzare il sogno di diventare ingegnere aeronautico civile. Nessuna velleità poetica? «Un mio compagno di scuola amava la poesia e mi convinse a partecipare a un concorso. Passai la prima selezione, ma non andai oltre». Le ottime pagelle scolastiche danno invece ad Antonio l’opportunità di frequentare ingegneria nell’allora Unione Sovietica, all’università di Kiev. Terminati gli studi, inizia il lavoro presso l’aeroporto di Santiago. Una vita normale, per quanto possa esserlo in una terra che paga con infinite difficoltà economiche il prezzo della rivoluzione; che ogni giorno deve lottare contro l’embargo e i tentativi americani di annientare la minuscola roccaforte comunista sul mare dei Tropici.

Nel ’90, Cuba è alle corde. Il cosiddetto Periodo Especial si traduce nella mancanza quasi totale di mezzi di sussistenza, dalla fornitura regolare di elettricità alla benzina. Unica fonte di sopravvivenza sembra garantirla il turismo, in ascesa grazie agli accordi con importanti operatori internazionali. Ed è proprio il turismo che i gruppi terroristici alimentati dai cubani di Miami, anticomunisti viscerali, vogliono colpire. Precisa Guerrero «Si può dire che questi gruppi si formarono il giorno dopo la Rivoluzione, e si misero subito al lavoro. Negli anni ’90 vennero commessi decine e decine di attentati, non pochi si lasciarono dietro dei morti. Fare il turista a Cuba doveva diventare molto, molto pericoloso». Il crescendo è impressionante: 7 ottobre ’92, un’imbarcazione armata attacca l’Hotel Mella Varadero e poi si rifugia in acque statunitensi; 11 marzo ’94, un gruppo di terroristi proveniente da Miami spara contro l’Hotel Guitar di Cayo Coco; 6 ottobre ’94, spari contro lo stesso hotel; 11 novembre ’94, arresto di quattro terroristi a Varadero, loro obiettivo le strutture turistiche; 21 ottobre ’96, un aereo del Dipartimento di Stato americano sparge, a pochi chilometri da Varadero, una sostanza contenente un agente batterico, il Thrip Palmi Karny, in grado di distruggere le coltivazioni; da aprile a settembre ’97, bombe all’Avana negli hotel Melia Cohiba, Capri, Nacional, Miramar, Triton, Copacabana (qui muore l’italiano Fabio Di Celmo) e alla Bodeguita del Medio; ancora bombe ad agosto dello stesso anno nell’hotel Sol Palmares di Varadero, e bombe inesplose in un minibus turistico e in un chiosco dell’aeroporto dell’Avana. Sempre nel ’97, arresto del terrorista salvadoregno Cruz Leon, il quale confessa di essere autore di vari attentati e di aver ricevuto 4500 dollari per ogni ordigno piazzato; identica cosa dichiara, un anno dopo, in un’intervista al New York Times, un altro terrorista, Posada Carilles, aggiungendo di essere stato finanziato dalla FNCA, la Fondazione Nazionale Cubano Americana con sede a Miami nello stesso edificio della FHCR, Fondazione per i Diritti Umani in Cuba. Per fermare più in fretta possibile questa lunga scia di sangue e insieme l’emorragia del turismo, il governo aveva già deciso tempo prima di smascherare i mandanti e denunciarli al mondo.
C’era bisogno di un piccolo gruppo che fosse in grado di mettere insieme una documentazione inoppugnabile. Vengono interpellati Fernando Gonzalèz, René González, Gerardo Hernández, Ramón Labañino e Antonio Guerrero Rodriguez. Precisa Antonio «Eravamo cinque persone nomali, non avevamo una preparazione speciale, né veniva richiesta. Accettammo e iniziammo il nostro lavoro, venticinquemila pagine in otto anni, a testimoniare il nostro agire allo scoperto e le ragioni per le quali eravamo lì: disarmati, senza alcun piano sovversivo. Non abbiamo mai sfiorato nessuno (ride, ndr) neppure con un petalo di rosa». Lui ha passaporto americano come René, gli altri entrano a Miami con passaporti falsi. Ma, ribadisce Antonio «Tutti agivamo alla luce del sole, non eravamo e non ci comportavamo da 007. Il nostro compito consisteva nel trovare e mandare prove e materiale in grado di costringere gli americani a cooperare per distruggere la rete del terrorismo». Nel settembre del 1998, basandosi sulla forza di quanto i Cinque hanno raccolto, le autorità di Cuba chiedono una riunione con il Dipartimento di Stato e l’FBI, durante la quale denunciano il ruolo delle associazioni e delle comunità anticastriste.

Il 12 settembre, i Cinque vengono arrestati nelle loro abitazioni «Gli agenti fecero irruzione armata in casa mia, a Key West, mi ammanettarono, mi caricarono su un’auto e mi portarono nella sede locale dell’FBI. Tra di loro riconobbi George, uno che incontravo abbastanza spesso e si era offerto alla mia compagna di allora come massaggiatore. Quando gli passai davanti, mi rivolsi a lui chiamandolo George. Fece finta di cascare dalle nuvole, disse di non chiamarsi così. Il che era assolutamente vero. Dopo il primo interrogatorio mi trasferirono all’FBI di Miami. Iniziarono rassicurandomi: se avessi collaborato non ci sarebbero stati problemi, sarei tornato alla vita di tutti i giorni e alla spiaggia che mi piaceva tanto. Risposi di non aver nulla da dire o da nascondere, di non capire perché mi avessero ammanettato e portato lì. Se ne andarono. Poco dopo venni avviato al Centro Federale di Detenzione e messo in cella di isolamento». The hole, il buco, sarà il mondo dei Cinque per diciassette mesi invece dei due al massimo previsti dalla legge «Succederanno molti fatti durante l’istruttoria, ma uno è particolarmente indicativo dell’atteggiamento della giustizia nei nostri confronti. La documentazione che avevamo prodotto venne secretata e resa di difficilissimo accesso agli avvocati difensori. Occorrevano permessi da chiedere con tre giorni d’anticipo e non sempre accordati. Dopo il primo mese di carcere duro riuscimmo a ottenere di parlare tra noi, ma solo a coppie. Respiravamo un’atmosfera di ostilità e chiedemmo che il processo si svolgesse fuori da Miami. Ci fu negato» Il 27 novembre del 2000 viene selezionata la giuria e il 6 dicembre si comincia. In un primo momento, tra i capi di imputazione non compare l’accusa di omicidio di primo grado nei confronti di Hernández per aver abbattuto, nel 1996, due tra i tanti aerei che violavano di frequente gli spazi cubani. Una montatura messa su in fretta e furia «Il verdetto di condanna arrivò otto mesi dopo l’inizio del processo, durante il quale non erano emerse prove concrete, né di spionaggio, né di omicidio. Se i giurati non fossero stati di Miami, ci avrebbero giudicati innocenti. Ma vincemmo comunque, perché avevamo portato a conoscenza dell’opinione pubblica le attività terroristiche di gruppi e organizzazioni contro Cuba, facendo nomi e cognomi di chi li finanziava e li guidava».
Hai scritto che nel maggio del 1999 la poesia è venuta a salvarti, a salvarvi. Puoi spiegarlo? Un foglio bianco davanti ad Antonio si è riempito di date, mappe del carcere abbozzate, nomi. Ci aggiunge il disegno della cella di isolamento: un letto, una sedia, un tavolino, un bagno angusto. Ventiquattr’ore al giorno da solo, lì e soltanto lì. Per diciassette mesi «Un giorno iniziai a pensare un poema. Dico ‘pensare’ perché, all’inizio, non avevo neppure una matita. Mandavo i versi a memoria. Poi la matita me la diedero, e scrissi un altro poema, un altro ancora e ancora un altro… La poesia si era trasformata in un meccanismo che mi aiutava a far scorrere il tempo, a dimenticare dove mi trovavo. Sovente recitavo i versi per gli altri carcerati. Un amico venne a trovarmi, portandomi un libro che conteneva 365 poesie di autori diversi, una per ogni giorno dell’anno. Decisi che avrei fatto la stessa cosa, ma le poesie le avrei scritte tutte io, dalla mattina alla sera». Cinque prigionieri politici, di cui uno poeta. Come vi vedevano gli altri detenuti, cosa pensavano di voi? «Al di là del tipo di detenuto che sei, la chiave di accesso alla prigione è il rispetto della gente con cui vivi ogni giorno. Noi il rispetto ce lo siamo guadagnato. Per molti anni ho fatto il maestro e ho cercato di trasmettere ad altri la mia passione per la pittura. Con umiltà, perché essere arroganti, sentirsi superiori, è un errore grave. E ancor più grave è fare la spia, accusare, parlare alle spalle. Chi ti rispetta in carcere, sa anche proteggerti. Dalle lotte fra gang, ad esempio, avvisandoti che quel giorno è meglio non andare in mensa, oppure in un determinato luogo. Verso di noi nacquero una certa ammirazione e una forma di solidarietà quando si venne a sapere che stava nascendo un movimento in nostro favore».

Che cosa hai provato quando ti hanno detto che saresti uscito dopo sedici anni di lontananza dal mondo? Il tono fermo e pacato di Antonio si arrende alla commozione «Il 15 dicembre del 2014, alle cinque e mezza del mattino, un’infermiera picchia sulle sbarre e mi dice ‘Tra un’ora devi essere al reparto dimissione con tutte le tue cose’. Mi alzo dal letto e chiedo al mio compagno di cella, un portoricano, di aiutarmi. Lui usciva a gennaio, gli dico ridendo ‘Hai visto? Me ne vado prima io’». Fuori, finalmente di nuovo in strada, poi al Centro medico del carcere. Il giorno seguente Antonio viene fatto entrare in una grande stanza «Non mi restava che firmare la grazia accordata da Obama. Ma Gerardo dov’era? Senza di lui non me ne sarei andato. Poi lo vedo che abbraccia alcune persone. Allora firmo. Il 17, alle 8 e 10, siamo partiti per l’Avana». A Cuba tu sei considerato un eroe nazionale. Si sente tale, Antonio Guerrero Rodriguez? «Il nostro eroe nazionale si chiama José Marti. Un maestro di vita, se vuoi capire che cos’è la vita, se vuoi capire qualcosa di te stesso e qual è la tua funzione nel mondo. Lui diceva ‘L’uomo è quello che non si vede’. Questo è l’uomo che sono. Quello che non si vede, e anche quello che si vede. Ma io sono innanzitutto le mie idee, i miei pensieri, la mia coscienza, la mia visione del mondo, il mio modo di comportarmi come amico di me stesso. Quindi sono uguale a tutti. Gli dei appartengono alla mitologia. Noi siamo quello che riusciamo a interpretare del nostro pensiero e a realizzare… Non mi ritengo un poeta, l’ho fatto per resistere e la gente ha capito che è stata una cosa buona. Adesso posso essere un esempio. E domani? Cammino cercando di non perdere la bussola. Il mio compito è andare avanti». ‘Qui mi vedrai tanto solo/ dietro di me l’ombra/ non c’è sole, né anniversario/… Io non provo rancore/il mio canto non si stanca/io grido amore e vengono volando le colombe’. Le mani di Antonio Guerrero Rodriguez si fermano. Gli occhi, invece, continuano a cercare un futuro imprigionato eppure mai arreso, mai sconfitto. Il futuro di un uomo sempre capace di essere quello che non si vede.

(Grazie a Giuliana Grando, Francesca Zanutto e Luigi Bardellino per l’aiuto. A Mattia per la traduzione in diretta)